Antonio Muñoz ha fatto davvero la toilette a Santa Sabina?

Interno di Santa Sabina (foto di Mario Cerasari)

Il titolo del contributo cerca di rifarsi a quello d’un articolo uscito nel lontano 1919 sul quotidiano “Il Tempo”: La toilette di Santa Sabina e altre cose. Ne leggiamo la firma dell’autore: Roberto Longhi.

Uno dei più noti e brillanti critici d’arte del secolo passato non avrà certo bisogno di presentazioni; in questa sede, però, tenteremo di riuscirne a capire il punto di vista, con l’obiettivo, anche questa volta, di dare spazio a chi la pensò diversamente. Sarà poi il lettore a decidere da quale parte stare.

È il 1914. Sebbene lo scoppio della Grande Guerra sarà la causa di una lunga interruzione, cinque anni dopo, quando Longhi scriverà, Antonio Muñoz – storico dell’arte e, al contempo, direttore della Soprintendenza ai Monumenti del Lazio e degli Abruzzi – portò a termine un’importante campagna di restauro all’interno della Basilica di Santa Sabina a Roma. Agli occhi di Longhi, non sfuggì certo la drasticità di quell’intervento ma, prima di entrare nel merito, sarà ora opportuno tracciare un quadro storico-artistico del monumento.

Ritratto fotografico di Antonio Muñoz (Ghitta Carell, Public domain, via Wikimedia Commons)
Ritratto fotografico di Roberto Longhi (Public domain, via Wikimedia Commons)

Siamo al tempo di papa Celestino I (422-432) ed il presbitero Pietro d’Illiria fonda una Basilica sul colle Aventino. È lui stesso, d’altronde, a suggerircelo nell’iscrizione posta in controfacciata ed in cui, con trasporto forse più poetico che religioso, si riferisce all’edificio con l’espressione questa meraviglia.

Santa Sabina presenta una pianta longitudinale, scandita internamente da tre navate di cui, quella centrale, ritmata da colonne su cui poggiano archi a tutto sesto. Priva di transetto, che le avrebbe conferito la tipica forma a croce, è chiusa da un’abside semicircolare e, in alto, da un tetto ligneo oggi piano ma, in origine, a capanna. Le finestre, emergenti sui quattro lati, illuminano dolcemente l’invaso interno in cui, tuttavia, l’oscurità delle navate laterali crea affascinanti contrasti. Esternamente, l’attuale aspetto del portico risale ad una fase ben più tarda, ma è riuscito comunque a conservare una traccia paleocristiana: si tratta cioè della preziosissima porta lignea di ingresso – risalente al V secolo d.C. – dove, in pannelli ora più piccoli ora più grandi, sono raffigurati diversi episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Roma, Basilica di Santa Sabina, esterno, portico. Particolare dei pannelli decorati della porta lignea di ingresso di V secolo (foto di Mario Cerasari)

Dal tempo dei primi cristiani, torniamo di nuovo al Novecento per arrestarci prima dell’inizio dei lavori di restauro. Dal punto di vista strutturale, Santa Sabina appariva con la maggior parte delle finestre murate, opera effettuata forse al tempo di papa Sisto V (1585-1590): nella foto sotto riportata, ne vediamo la controfacciata in cui, al posto delle cinque aperture, si può notare un rosone riferibile ad una fase più tarda rispetto a quella di fondazione; fenomeno analogo si osservava anche per le aperture dell’abside, dove invece furono ricavate delle bifore di gusto gotico. Muñoz le riaprì tutte e diciotto. Inoltre, essendo stati rinvenuti anche diversi frammenti delle transenne – questo perché, al momento della chiusura delle finestre, furono alzati due muri, sia all’esterno che all’interno –, si decise di rifarle.

Roma, Basilica di Santa Sabina, interno, controfacciata. La foto, che precede l’intervento del 1914-1919, attesta lo stato della parete di controfacciata, col rosone, prima della liberazione delle finestre (foto tratta da Muñoz 1938)
Roma, Basilica di Santa Sabina, interno. La foto mostra lo stato odierno della controfacciata, con le sue cinque finestre liberate (foto di Mario Cerasari)
Roma, Basilica di Santa Sabina, esterno, abside. Si notino le bifore gotiche ricavate nelle finestre absidali (foto tratta da Muñoz 1938)
Roma, Basilica di Santa Sabina, esterno. Lo stato odierno delle finestre dell’abside e dei fianchi (Dnalor 01, CC BY-SA 3.0 AT https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/at/deed.en, via Wikimedia Commons)
Disegno ricostruttivo delle transenne delle finestre della Basilica (foto tratta da Muñoz 1938)

Fu abbattuto l’altare maggiore, da poco messo in opera insieme al baldacchino soprastante – considerato, quest’ultimo, poco consono rispetto allo stile antico della chiesa – e sostituito con uno nuovo in chiave moderna «non essendosi trovato alcun avanzo di quello antico».

Roma, Basilica di Santa Sabina, interno, zona della Tribuna. La foto attesta lo stato ante quem l’intervento di Muñoz, che vedrà l’eliminazione del baldacchino e dell’altare sottostante. Inoltre, sono visibili anche le pitture ottocentesche della conca absidale e, in parte, quelle laterali dello stesso periodo. Verranno ugualmente rimosse nella campagna di restauro (foto tratta da Muñoz 1938)

Furono inoltre aggiunti il sedile di pietra intorno alla Tribuna «nelle misure identiche a quello dell’antico e ricostruita, nel mezzo, la cattedra episcopale nella quale furono inseriti due frammenti di un’antica sedia marmorea d’epoca classica, con grifi scolpiti, uno dei quali era murato nel vestibolo e l’altro nel campanile». Alla fine del Cinquecento, oltre ad essere state chiuse le finestre, venne anche rialzata quest’area dell’edificio aggiungendo tre gradini e ricavandone, al di sotto, una cripta per accogliere diverse reliquie di santi; in questo modo, si era sì ottenuto uno spazio più ampio ed imponente, che comportò d’altra parte la distruzione della iconostasi di XIII secolo, della schola cantorum – il recinto, cioè, in cui si dispongono i cantori – risalente al tempo di papa Eugenio II (824-827) e la chiusura delle ultime due arcate della navata centrale. Perciò Muñoz, perseguendo l’idea di ripristino dell’antico, come già era stato per la cattedra, ricostruì la schola cantorum e l’iconostasi: se per quest’ultima utilizzò gli stessi frammenti ancora esistenti, per la prima, invece, furono reimpiegate lastre marmoree sparse in diverse parti della Basilica.

Dal punto di vista decorativo invece, l’abside appariva nello stato risalente al tempo di papa Pio VIII (1829-1830), decorata cioè con pitture in chiaroscuro, come anche le pareti di chiusura delle prime arcate della nave centrale; in quella occasione, dunque, queste aggiunte seriori furono tutte quante rimosse. Stesso discorso va fatto anche per le pitture che, sempre nell’Ottocento, erano andate sovrapponendosi sui muri di tamponamento delle finestre in controfacciata.

Roma, Basilica di Santa Sabina, interno, abside. Uno scatto testimone di parte delle pitture in chiaroscuro dell’Ottocento (foto tratta da Muñoz 1938)
Roma, Basilica di Santa Sabina, interno. In questa foto si possono osservare le pitture ottocentesche eseguite sui muri di tamponamento delle arcate di destra della navata centrale (foto tratta da Muñoz 1938)

Fu anche effettuato il restauro dell’affresco cinquecentesco di Taddeo Zuccari posto nell’abside – durante il quale vennero rinvenute alcune tessere del mosaico paleocristiano – e la riproduzione nelle tonalità seppia della decorazione del relativo arco, prendendo a riferimento una fonte del Seicento. Infine, nonostante nei documenti non ne venga fatta esplicita menzione, si ritiene che, in quella stessa circostanza, venne anche risarcito a pittura l’opus sectile delle pareti della navata centrale.

Roma, Basilica di Santa Sabina, interno. Il catino e l’arco absidale oggi (Fczarnowski, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons)

È interessante il giudizio che Antonio Muñoz diede in merito ai restauri del passato che, almeno a partire dal Cinquecento, si erano susseguiti all’interno della Basilica: egli infatti, pur non sentendosi di colpevolizzare Maderno e Borromini per aver restaurato, rispettivamente, la Basilica di San Pietro e quella di San Giovanni in Laterano, non mancò velatamente di sottolineare che, un tempo, non veniva «in mente ad alcuno l’idea, che è tutta dei nostri giorni, di rispettare l’antico, di conservare quanto più si poteva, l’unità di stile». E, su questo, è forse impossibile dargli torto.

Tuttavia, ad un certo punto al lettore sarà parso strano di leggere, in merito ad esempio alla ricostruzione della schola cantorum, che l’architetto e storico dell’arte assemblò frammenti sparsi nell’edificio – dunque non provenienti dall’oggetto di restauro – secondo un’ottica di mimetica stilistica. Ma perché sembra strano tutto ciò? Perché forse ci tornano in mente le parole di uno dei padri della teoria del restauro in Italia, Cesare Brandi, secondo le quali «il restauro deve mirare al ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo».

Muñoz avrebbe, quindi, tentato di mirare al ristabilimento di un’unità che, nel campo del restauro, è illusoria o, per dirla alla Brandi, soltanto potenziale; inoltre, inserendo frammenti prelevati in diversi punti della basilica ha, di fatto, plasmato tanto un falso artistico – perché non provenienti, come visto, dall’oggetto risarcito – quanto un falso storico – perché, attraverso il ripristino delle parti, si va andava a rimuovere uno o più passaggi temporali che hanno fatto sì che la schola cantorum, così come la cattedra episcopale, pervenissero allo stadio di frammento –. In riferimento a quest’ultimo passaggio, un discorso molto simile andrebbe fatto anche per la rimozione degli affreschi ottocenteschi che erano andati inserendosi in diversi parti dell’edificio; rimuoverli ha, in qualche modo, segnato l’eliminazione di quel passaggio storico nella Basilica.

Attenzione però: in questo momento, non si vuole lanciare una crociata contro Muñoz che, in particolare la scrivente, ha avuto modo di apprezzare nel corso dei suoi studi universitari. Quando egli operava in Santa Sabina erano soltanto gli anni 1914-1919 e sarebbe passato ancora del tempo prima della fondazione dell’Istituto Centrale del Restauro, avvenuta infatti nel 1939. Quel che si sta cercando di dire è che una teoria del restauro non esisteva ancora e tante, troppe, erano le interpretazioni intorno a questa disciplina che, all’epoca di Muñoz, non era percepita ancora come scienza critica. Ciò che egli fece in Santa Sabina potrebbe essere equiparato, tornando a sfogliare Brandi, al cosiddetto restauro “di ripristino”: lo storico dell’arte si è, di fatto, inserito tra il momento creativo e la definizione dell’opera, sotto la spinta, purtroppo vana, di riportarla all’antico splendore medievale. Oltretutto, in questo caso, il risarcimento è avvenuto prendendo frammenti non propri dell’oggetto ma che, in apparenza, essendo vicini allo stile dello stesso, si è pensato di utilizzarli ugualmente.

«Eppure! Hanno fatto la toelette a Santa Sabina. (…) Ecco il restauro, questa somma e sommamente goffa pretesa di esattezza storica, coincidere fatalmente con la peggiore falsificazione della storia. Si recidono i legami delicati e magici delle epoche; si distruggono infinità di momenti, tutti a loro modo legittimi, della vita di un edificio a vantaggio di quel momento solo che si spera di rinvenire sotto l’intonaco ch’era anch’esso di storia; e non trovandolo, com’è naturale, lo si sostituisce poi con una supposizione scientifica, con la lezione più probabile del codice abraso. Ma le pietre sono persino più delicate delle parole; i muri più sensitivi dei palinsesti. (…) Un’architettura non può essere restaurata – nel senso di reintegrazione delle parti mancanti – proprio come non lo può essere – ed è curioso che soltanto su questo punto i migliori siano d’accordo – una pittura o una scultura. O un edificio è per avventura cosa meno delicata d’epidermide che un quadro, che una statua? (…) Per ciò, all’ingrosso, e per approssimazione, si restaura». Queste erano le parole di Roberto Longhi, il cui pensiero si dimostra veramente affine a quello di Brandi.

Alla prima campagna di restauro ne seguì, in verità, una seconda: è l’anno 1936 e, di nuovo, Muñoz dirige i lavori. Fu così che venne rifatto il pavimento perché, liberata anni prima la zona della tribuna, era improvvisamente venuta alla luce la pavimentazione marmorea di XIII secolo; allora in quel 1936 «il nuovo pavimento di marmo lo abbiamo perciò rifatto ispirandoci alle parti antiche, pur adoperando nelle tarsie delle cornici marmi colorati in parte moderni»; in quella stessa circostanza, si riuscì inoltre ad avere un esatto rilievo del perimetro della schola cantorum, decidendo perciò di ricostruirla una seconda volta «in proporzioni più fedeli a quelle originali».

Roma, Basilica di Santa Sabina, interno, schola cantorum. Particolare decorativo di uno dei plutei impiegati per la seconda ricostruzione della schola cantorum (foto di Mario Cerasari)
Roma, Basilica di Santa Sabina, interno, schola cantorum. Particolare decorativo di uno dei plutei impiegati per la seconda ricostruzione della schola cantorum (foto di Mario Cerasari)

Furono inoltre innalzati gli antichi amboni per l’Epistola ed il Vangelo «a linee molto semplici, non essendovi alcun indizio della loro forma originale», prendendo a modello quelli della Basilica di San Clemente. Infine, tra gli interventi della seconda campagna di restauro si annoverano il rifacimento del tetto e, in ambito decorativo, quello dell’opus sectile nella conca absidale stando a quanto Domenico Fontana, l’architetto prediletto di Sisto V, aveva descritto al momento della sua rimozione e parziale impiego in altri punti dell’edificio.

Roma, Basilica di Santa Sabina, interno. Particolare della decorazione in opus sectile della navata centrale (foto di Mario Cerasari)

Lo si ricorda: anche questo secondo intervento precedette l’avvento delle tesi di Cesare Brandi – e non solo –, per cui quelle che a noi potrebbero risultare delle assurdità, all’epoca non lo erano affatto. Anzi, il ripristino del violato stile d’un monumento paleocristiano – quale quello, per eccellenza, di Santa Sabina – era percepito come l’obiettivo più alto cui mirare. D’altronde Santa Sabina non spuntò come un fiore nel deserto, senza dei casi che la precedettero e sui quali, in futuro, si avrà occasione di parlare. Ogni fenomeno è figlio dei tempi in cui sorge: al giorno d’oggi, infatti, le campagne di restauro poco fa analizzate non sfiorerebbero la mente di nessun professionista per i motivi sopra sintetizzati.

Tuttavia, qualche volta al lettore sarà forse capitato di aver provato maggior fascino verso quell’edificio che, sollevatane l’antica epidermide, può finalmente essere visto come si sarebbe riflesso negli occhi del suo fondatore: «questa meraviglia è stata creata da un prete di Roma, oriundo d’Illiria, Pietro, uomo ben degno di portare tale nome, perché dalla nascita nutrito nell’aula di Cristo. Ricco per i poveri, povero per se stesso. Il quale, fuggendo i beni della vita presente, ha bene meritato di ricevere vita futura».

Bibliografia essenziale:

A. Muñoz, La Basilica di Santa Sabina in Roma: descrizione storico-artistica dopo i recenti restauri, Milano 1919.

A. Muñoz, Il restauro della Basilica di Santa Sabina, Roma 1938.

C. Brandi, Teoria del restauro, Torino 1963.

R. Longhi, La toilette di Santa Sabina e altre cose, in «Il Tempo», (8 luglio 1919).

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Giulia Abbatiello

Scritto in data: 7 maggio 2021

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

In relazione alle foto di Mario Cerasari, gentilmente concesse per la redazione dell’articolo, ne è vietata la diffusione senza l’esplicito consenso dell’autore e/o l’indicazione dei credits fotografici, nonché del link relativo al presente articolo.

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About Giulia Abbatiello 31 Articles
Storica dell'arte, Bibliotecaria e abilitata all'insegnamento della Storia dell'Arte (classe A-54) nelle scuole secondarie di secondo grado. Si laurea nel 2020 in Storia dell'Arte con 110 e lode all’Università degli Studi di Roma "La Sapienza". L'anno successivo consegue il diploma di Master di II livello in “Strumenti scientifici di supporto alla conoscenza e alla tutela del patrimonio culturale” presso l'Università degli Studi di “Roma Tre”. Diplomatasi presso la Scuola Vaticana di Biblioteconomia (2023), ha preso parte al al progetto di catalogazione del libro antico del Fondo "Antichi e Rari" della Biblioteca della Pontificia Università Gregoriana e collabora attualmente al progetto di catalogazione dei manoscritti miniati del Fondo "Urbinate" nell’ambito del “Censimento e catalogazione dei manoscritti miniati della Biblioteca Apostolica Vaticana”, sostenuto dall’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e dall’Università degli Studi della Tuscia.