I beni archeologici tra la verifica o la dichiarazione dell’interesse culturale: l’orientamento della Corte di Cassazione

Foto di Reyhan . (da: https://www.pexels.com/)

Apriamo l’intervento di questo mese con una annosa questione, che sempre ha gettato ombre e posto dubbi sulla appartenenza di beni culturali. Si tratta di rispondere al seguente quesito: quali sono i presupposti di legge in virtù dei quali è possibile legittimamente vantare il diritto di proprietà su beni “definiti” culturali e, precisamente, sui beni archeologici?

Accade spesso nella prassi che fior di collezionisti, o semplici “amatori”, poi scoperti tombaroli, detengano presso le loro abitazioni monete antiche, anfore e vari reperti archeologici, giustificandone il possesso con affermazioni più disparate: “li ho trovati nel garage di mio padre, ora morto”; “li ho ereditati da mio nonno”; “non sapevo della loro natura, li ho comprati sulla bancarella al mercatino dell’usato”.

Questi soggetti, una volta tratti in giudizio, provano a sostenere la tesi secondo la quale i reperti dei quali sono stati trovati in possesso non possono essere considerati di natura culturale perché non era mai intervenuta la “dichiarazione di interesse culturale”, contemplata all’art. 13 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), e quindi non possono essere chiamati a rispondere del reato loro contestato.

In questo blog abbiamo già trattato, in un precedente intervento, la differenza che sussiste tra l’istituto della “verifica dell’interesse culturale, prevista all’art. 12, e quello della “dichiarazione dell’interesse culturale”, contemplata all’art. 13 del Codice; si tratta ora di capire come operano in concreto gli istituti in relazione al bene archeologico e quale orientamento giurisprudenziale ha dato al riguardo la Corte di Cassazione.

Repetita iuvant. La “verifica dell’interesse culturale” di cui all’art. 12 del Codice si riferisce a beni che già appartengono alla sfera pubblica, che siano di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni. L’appartenenza alla sfera pubblica è il primo presupposto perché possa essere dichiarato l’interesse culturale. Non a caso la disposizione parla di verifica: si verifica ciò che, in qualche modo, già è. Accertato l’interesse culturale sotto uno dei profili artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, il bene è sottoposto al regime di tutela previsto dalle disposizioni del Codice.

Diversamente, “la dichiarazione dell’interesse culturale” di cui all’art. 13 del Codice si riferisce a beni che appartengono al privato. Si tratta, in sostanza, di un qualcosa che non è propriamente culturale ma che presenta i crismi della culturalità del quale è necessario accertarne l’essenza. Anche in questo caso, una volta accertata la culturalità del bene, quest’ultimo viene dichiarato con provvedimento amministrativo (decreto) di interesse culturale a seguito di un procedimento il cui iter è descritto all’art. 14, e sottoposto al regime di tutela del Codice. In sostanza il privato ne rimane proprietario ma il suo diritto di godimento e di disposizione sul bene viene di fatto compresso in ragione di una serie di obblighi e oneri in caso di alienazione o fruizione: si pensi, per esempio, all’istituto della prelazione; o anche agli oneri di comunicazione/autorizzazione in caso di restaurazione o manutenzione del bene.

Una domanda sorge spontanea: può il privato affermare il suo diritto di proprietà in relazione ad un bene archeologico, quale, per esempio, un’anfora romana? Può, in altri termini, il privato affermare che sullo stesso bene, non essendo intervenuta alcuna dichiarazione di interesse culturale ai sensi dell’art. 13 del Codice, egli ne è di diritto il proprietario?

La risposta è no, e ne vediamo ora i motivi.

Intanto occorre dire che, per espressa disposizione di legge contenuta all’art. 91 del Codice, «Le cose indicate nell’articolo 10, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile».

Si tratta di beni culturali ritrovati nel sottosuolo o sui fondali marini: i reperti archeologici sono beni che normalmente si trovano nel sottosuolo o sui fondali marini e, quindi, appartengono allo Stato.

Già questa disposizione basterebbe a fornire motivo più che legittimo per il nostro privato di non poter affermare alcun diritto proprietario sui beni di cui è stato trovato in possesso.

Ma vediamo come si atteggia la Corte di Cassazione e, soprattutto, quale è il ragionamento logico-giuridico posto alla sua base.

Occorre anzitutto premettere che in epoca antecedente al 1909, anno di entrata in vigore della prima legge che ha riconosciuto l’appartenenza pubblica ope legis allo Stato dei reperti archeologici, vi era una vacanza normativa, pertanto il detentore di tali beni era per così dire legittimato ad affermarne la proprietà.

Dopo l’entrata in vigore di tale legge, quelle successive ne hanno confermato il principio, poi ulteriormente più volte affermato in sede di legittimità della Corte di Cassazione, fino all’attuale Codice, dove, come si diceva, all’art. 91 è stato definitivamente statuito.

La Corte di Cassazione, con orientamento ormai consolidato, ha più volte affermato il principio secondo il quale «Un bene deve qualificarsi come culturale, ove si tratti di cose ritrovate nel sottosuolo o sui fondi marini, poiché a tali cose compete la qualificazione di beni culturali appartenenti allo Stato indipendentemente dalla dichiarazione di cui all’art. 13 del D. Lgs. n. 42 – 2004».

Basta per la difesa del privato affermare che il bene del quale è stato trovato in possesso lo ha, per esempio, ricevuto in eredità?

La risposta merita una breve premessa in ordine ad un principio fondamentale del processo penale: si vuole fare riferimento al principio dell’onere della prova.

In altri termini nel processo penale il soggetto che muove la contestazione di un reato, funzione questa svolta dal Pubblico Ministero, che rappresenta la pubblica accusa, deve – nel senso che ha il dovere a pena di improcedibilità – esibire le prove poste a fondamento della propria accusa.

Si tratta, appunto, di un onere che è anche e soprattutto un vero e proprio dovere.

Con riguardo al possesso di beni archeologici da parte di privati, la Corte di Cassazione è intervenuta affermando un principio, anch’esso ormai consolidato, che di fatto ha in qualche modo sovvertito quello dell’onere della prova, ed infatti: «Nel giudizio di accertamento della proprietà pubblica di beni archeologici in possesso di privati, il ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909, costituente ipotesi di legittimo possesso da parte di privati, deve essere provato, in quanto circostanza eccezionale, da chi l’eccepisce

Quindi il privato che afferma di aver ereditato beni di natura archeologica (nella prassi si assiste spesso a rinvenimento di monete antiche in relazione alle quali il soggetto dichiara di averle ricevute in eredità dal nonno), deve fornire la prova della eredità e che questa sia riconducibile a ritrovamento antecedente al 1909 perché, come afferma la Cassazione, il possesso di tali beni è considerato un fatto eccezionale, e da qui la deroga al principio dell’onere della prova.

Piace considerare, a conclusione di questo intervento, la sensibilità dimostrata e normativamente sancita dal nostro ordinamento in relazione ad un particolare bene culturale, quale è quello di natura archeologico, che più di ogni altro bene si presta ad affermare la nostra essenza antropologica, storica e culturale, e quindi la nostra identità.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Leonardo Miucci

Scritto in data: 24 marzo 2021

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

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About Leonardo Miucci 48 Articles
Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, precedentemente in servizio presso la Sezione TPC di Siracusa