Il caso Sironi: tra censura e svelamento

Ritratto fotografico di Mario Sironi (foto tratta da Wikipedia; see page for author, Public domain, via Wikimedia Commons)

«Eccellenza, S.E. Piacentini mi dà notizia che per somma benevolenza dell’E.V. mi è stato assegnato il compito arduo di illustrare il fascismo sulla grande parete del Salone dell’Università Romana. Non potevo ricevere di più. (…) Il lavoro che la V.E. mi concede non sarà dunque una comoda e pacifica soluzione della mia vita d’artista, ma sarà uno dei primi e dei più ardenti slanci verso questa meta alta e severa che dovrà rigenerare nello spirito e nei mezzi l’arte di oggi, condotta da vanità di tendenze individualistiche(…). Posso bensì sentirmi inquieto per un simile compito e per dovere proprio io dare una simile dimostrazione, ma non avrò a mio sostegno che una sola forza immensa: la mia fede in V.E., il mio pensiero di essere guardato dal Duce, la imperiosa e quasi dolorosa – tanto è forte – volontà di adeguare l’opera degli artisti a quell’opera grande e fierissima che è l’Italia fascista. Per questo il mio nome, a opera compiuta, non conterà nulla di fronte allo spirito che la richiesta è direi generata. (…) Devotissimo, Mario Sironi».

Queste righe vengono tratte dalla lettera che, in data 8 dicembre 1933, il pittore Mario Sironi scrisse al duce, Benito Mussolini, ringraziandolo per avergli affidato l’incarico di decorare la parete dell’Aula Magna del Rettorato de “La Sapienza”, università che, proprio in quegli stessi anni (1933-1935), stava prendendo forma grazie a Marcello Piacentini, il principe degli architetti fascisti.

Sono parole queste in cui, oltre ad emergere la sincera devozione di Sironi verso Mussolini, affiora anche una parte del suo pensiero artistico: quando, infatti, scrive che «uno dei primi e dei più ardenti slanci verso questa meta alta e severa che dovrà rigenerare nello spirito e nei mezzi l’arte di oggi, condotta da vanità di tendenze individualistiche» allude intendere, in altre parole, che l’unico fine dell’arte di oggi è quello di mettersi totalmente al servizio della società intera, contro invece ogni tipo di tornaconto che il singolo artista potrebbe ricevere facendo uso di essa.

Nello stesso 1933, Sironi firmava – insieme a Massimo Campigli, Carlo Carrà ed Achille Funi – il Manifesto della pittura murale, nel quale venne ribadito – è il caso di dirlo – manifestamente questo concetto di collettività dell’arte fascista rapportato però, questa volta, alla pittura murale, espressione artistica tra le più giuste per quel fine:

«Nello Stato Fascista l’arte viene ad avere una funzione sociale: una funzione educatrice. Essa deve tradurre l’etica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L’arte così tornerà a essere quello che fu nei suoi periodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale. La concezione individualista dell’”arte per l’arte” è superata. (…) A ogni singolo artista s’impone un problema di ordine morale, l’artista deve rinunciare a quell’egocentrismo che ormai non potrebbe che isterilire il suo spirito e diventare artista militante, cioè a dire un artista che serve un’idea morale e subordina la propria individualità all’opera collettiva. Non si vuole propugnare con ciò un anonimato collettivo che ripugna al temperamento italiano, ma un intimo senso di dedizione all’opera collettiva. (…)».

In un’attenta analisi svolta da uno dei più importanti storici del fascismo, qual è Emilio Gentile, è stato rilevato che se gli artisti di quel periodo hanno avuto la possibilità di scrivere manifesti, dando poi seguito alle loro creazioni avanguardiste o tradizionaliste, è perché Mussolini, a differenza di altri dittatori come Stalin o Hitler, non impose mai un’arte dello Stato ma – sottile differenza – diede loro libertà d’espressione purché quell’arte fosse uno strumento di governo.

Anche dopo la fine del regime, Mario Sironi non rinnegò mai quel passato, a dispetto, invece, di molti altri artisti che ripeteranno di essere stati tecnici che fecero architetture, pitture, sculture, non politica; lui, invece, chiuso oramai nella solitudine della sua casa milanese, visse in silenzio, come un eremita, gli anni della nuova Italia democratica fino al 1961, anno della morte. Ricordando, avrà spesso sentito l’esigenza di tornare col pensiero sui miti e sui trionfi del fascismo che, in 140 metri quadrati di superficie, riuscì a rappresentare, in soli tre mesi di lavoro, ne L’Italia tra le Arti e le Scienze nell’Aula Magna del Rettorato de “La Sapienza”. Era il 1935, XIV anno dell’Era Fascista.

L’opera è stata realizzata sia ad affresco che a tempera. Per quanto riguarda il disegno – sia nella fase preparatoria che in quella dell’esecuzione pittorica –, Sironi ha fatto uso della incisione indiretta – quindi da cartone –, con l’intento non tanto di trasporre le linee, quanto con il fine di orientarsi nelle dimensioni da dare alle sue figure; alcune di queste incisioni sono state poi proseguite a mano, quindi direttamente sul muro. A dispetto della rapidità di esecuzione, l’artista primariamente realizzò moltissimi bozzetti in cui, anche su di un singolo dettaglio, apportò numerose varianti, indice dunque di uno studio lento e ragionato da lui compiuto.

L’opera si articola in tre parti, un pannello centrale e due laterali; per quanto ne riguarda l’analisi, si sottolinea in principio che ogni figura ritratta è da interpretarsi come allegorica: al centro è infatti l’Italia – vestita di bianco, cinta da una corona turrita ed armata di spada – circondata dai giovani studenti universitari – il GUF – a cui, ad uno di questi, porge un libro; dietro alla Nazione compaiono l’aquila ed il fascio littorio su cui è scolpita la cifra romana “XIV”, alludente cioè al quattordicesimo anno dalla fondazione del regime; in basso troviamo la prima delle Arti e cioè la Storia – ritratta leggermente di spalle con davanti un libro aperto –, mentre sulla destra sono due giovani togati – la Giurisprudenza – e seduta in basso, davanti ad una tela, è la Pittura. A questa altezza si incontrano altri simboli fascisti: il giovane con gli stendardi romani – alludenti all’Impero Romano e, quindi, anche al regime, prosecuzione di quello – ed in alto l’arco trionfale – altro elemento alludente alla storia –, dove al centro è un rilievo con condottiero a cavallo, che forse rimanderebbe ad un ritratto del duce stesso.

Si arriva così alla lunetta laterale di destra dove, su di un doppio registro sovrapposto, sono: in alto l’Architettura – il personaggio femminile seduto col compasso in mano ed il foglio sulle ginocchia – e la Scultura – che, invece, si trova in piedi con uno dei suoi strumenti di lavoro, il martello –; in basso, invece, sono la Letteratura e la Filosofia tra alcuni uomini, forse studenti.

Tornando al centro e, quindi, spostando lo sguardo alla destra dell’Italia iniziano ora le Scienze: la donna vestita di rosa, che sfiora con le dita il globo, è la Geografia; poco più in là, in alto, la Botanica, vestita di bianco, con un fiore in mano, e la Mineralogia, vestita di rosa come la Geografia, che osserva un minerale stretto tra le mani; in alto è un’altra personificazione simbolica, una Vittoria alata con spada ed elmetto.

Si passa infine alla lunetta di sinistra dove, ugualmente, su due piani sovrapposti sono: in alto l’Astronomia – la figura femminile, vestita di blu, con il capo e le mani rivolte al cielo – con, al fianco, la Geologia – che, invece, si cura di osservare la terra –; in basso l’Acqua – raffigurata come personaggio femminile seduto sulla roccia, – e vicino due uomini, alludenti allo stadio primitivo dell’essere umano, che hanno appena scoperto il fuoco, quindi la conoscenza.

Dopo la liberazione di Roma, nel giugno del 1944, l’affresco venne coperto da una carta da parati perché quei miti e quei trionfi di un’era, quasi decaduta, non potessero rispecchiarsi più in nessuno sguardo.

Dopo otto mesi dal crollo del fascismo, il 29 dicembre del 1945, l’Aula Magna venne scelta come sede del V Congresso del Partito Comunista Italiano; alcune foto d’epoca, scattate quel giorno, testimoniano la copertura totale del lavoro di Sironi.

Quindi, poco tempo dopo, venne organizzata una prima commissione – costituita da autorevoli personalità tra cui lo stesso Marcello Piacentini, Carlo Siviero, Pietro Toesca, etc. – al fine di prendere una decisione in merito al destino del dipinto; pervenne allora il bisogno di liberare l’opera dalla carta da parati, ma l’allora Rettore dell’Università, Giuseppe Caronia, si manifestò contrario a questa proposta, anzi, accarezzò addirittura l’idea di rimuoverne definitivamente ogni traccia.

Tuttavia, seguì una seconda commissione – Piacentini, Salmi, Siviero – che decise che il Sironi dovesse essere sì salvato ma rivisitato; allora, Siviero chiamò – siamo oramai nel 1950 – il pittore Alessandro Marzano al fine di compiere un restauro che, di fatto, annullò per il 90% l’opera originaria. Dopo la rimozione della carta da parati, infatti, venne steso uno strato di vinavil per compattare, da una parte, le parti in cui si era verificata la sopraelevazione dei colori e, dall’altra, per procedere poi con le sovrapitture. Di questa rivisitazione, ciò che maggiormente premette fu di censurare tutti i simboli inneggianti alla dittatura: dal condottiero/duce a cavallo nell’arco trionfale, all’elmetto della Vittoria alata – ora sostituito con un normale copricapo –, al fascio littorio – inclusa la cifra romana “XIV” –, fino all’aquila.

Ovunque, Marzano utilizzò colori opachi in accordi stridenti, modificando la fisionomia dei personaggi nei volumi delle capigliature, nei volti, nelle vesti. Ciononostante, in un articolo del 17 novembre del 1953, il critico Michele Biancale scrisse che il restauro era stato condotto «con incomparabile attenzione».

Negli anni Ottanta, dopo essere stata denunciata una serie di distacchi – sia tra gli strati preparatori che a livello della pellicola pittorica –, l’ICR ed il TECNI.RE.CO decisero di operare con un intervento che mirasse sia alla riadesione dei sollevamenti di colore – mediante iniezione di resine acriliche –, che al risanamento tra intonaci – consistito nell’inserimento di una base semirigida, dopo il distacco totale dal muro della zona da risarcire, e quindi il ricollocamento in situ.

Valutando poi la possibilità di portare alla luce il Sironi del 1935, si effettuarono così dei saggi di pulitura ma, alla fine, si decise di non andare oltre per due motivi: vi era troppa affinità chimica tra le tempere da mantenere (quelle originarie) e quelle da rimuovere (quelle di Marzano); infine, si era constatata la fragilità tra gli strati originari e, quindi, la impossibilità di poter procedere poi con qualsiasi passaggio successivo che, prevedendo l’uso di mezzi meccanici, avrebbe forse causato dei danni all’opera.

Si arriva così al 2015 quando, a fronte del precario stato di conservazione della pittura, l’ISCR (già ICR) e “La Sapienza” ebbero la possibilità di intervenire di nuovo. Prima che i ponteggi fossero montati, si effettuò una scansione in 3D sulla pittura, consistita in una mappatura dell’opera che diede informazioni in merito ai materiali costitutivi – quelli originari e quelli del restauro del 1950 – e alle tecniche artistiche utilizzate; di poi, si è proceduto con la proiezione della luce radente che ha fatto emergere – sebbene fossero ancora nascosti dalle aggiunte – i simboli fascisti. Spegnendo le luci, con il raggio ultravioletto si è cercato di vedere se, ad esempio, alcuni colori da rimuovere fossero visibili; infine, per verificare se l’opera avesse stabilità, sono stati messi due estensimetri che hanno dato risposta affermativa.

Dopodiché, terminate tutte le operazioni di natura pratica ed accertato che le aggiunte di Marzano non avessero intaccato il colore di Sironi, è seguito un tempo in cui, prima di passare al passaggio finale, cioè la pulitura, si è discusso in merito alla riemersione o meno dei simboli fascisti. Sironi era lì sotto, ma cosa fare?

È stata quindi avanzata una doppia considerazione, sia estetica che storica, facendo salire sui ponteggi storici e storici dell’arte del periodo, esperti di Sironi, etc. La maggioranza si espresse a favore della riemersione di quegli elementi. Si iniziò, quindi, immediatamente a procedere attraverso la rimozione delle sovrapitture di Marzano, – comprese quelle che celavano i richiami al regime –, accompagnata da circoscritti consolidamenti e dal trattamento delle lacune. Questo lavoro di pulitura è durato un anno e quattro mesi.

Oggi, L’Italia tra le Arti e le Scienze di Mario Sironi è di nuovo ammirabile nel suo antico splendore: secondo lo stile del pittore, infatti, le figure appaiono nuovamente nella loro minerale solidità contro un fondale – che sta a metà tra un parnaso moderno e un paesaggio metastorico – in cui a spuntare sono quei simboli fascisti che, per oltre sessantacinque anni, la censura aveva nascosto, pur contribuendo alla artisticità dell’opera in sé.

«Il restauro deve mirare al ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo».

Bibliografia consultata:

  • E. Billi, L. D’Agostino, Sironi svelato. Il restauro del murale della Sapienza, Campisano Editore 2020.
  • S. Bonsignori, E. Coen, S. Lux (a cura di), 1935. Gli artisti nell’università e la questione della pittura murale, ,«Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Palazzo del Rettorato, 28 giugno – 31 ottobre 1985», Roma 1985.
  • C. Brandi, Teoria del restauro, Torino 1963.
  • E. Gentile, L’Italia tra le arti e le scienze di Mario Sironi. Miti grandiosi e giganteschi rivolgimenti, Editori Laterza 2014.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Giulia Abbatiello

Scritto in data: 19 gennaio 2021

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About Giulia Abbatiello 31 Articles
Storica dell'arte, Bibliotecaria e abilitata all'insegnamento della Storia dell'Arte (classe A-54) nelle scuole secondarie di secondo grado. Si laurea nel 2020 in Storia dell'Arte con 110 e lode all’Università degli Studi di Roma "La Sapienza". L'anno successivo consegue il diploma di Master di II livello in “Strumenti scientifici di supporto alla conoscenza e alla tutela del patrimonio culturale” presso l'Università degli Studi di “Roma Tre”. Diplomatasi presso la Scuola Vaticana di Biblioteconomia (2023), ha preso parte al al progetto di catalogazione del libro antico del Fondo "Antichi e Rari" della Biblioteca della Pontificia Università Gregoriana e collabora attualmente al progetto di catalogazione dei manoscritti miniati del Fondo "Urbinate" nell’ambito del “Censimento e catalogazione dei manoscritti miniati della Biblioteca Apostolica Vaticana”, sostenuto dall’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e dall’Università degli Studi della Tuscia.