Il furto dei beni culturali nella nuova impostazione penalistica

Foto di Griffin Wooldridge (da: https://www.pexels.com/)

L’aula del tribunale era già piena, non certo per quel processo di poco conto se vogliamo, trattandosi di un furto di un “piccolo vaso dalla forma allungata e da una sola ansa” (i periti nominati dicono sia di origine greca), ma per altre più importanti vicende umane e giudiziarie.

Intanto il nostro imputato era lì, davanti al giudice che lo avrebbe dichiarato colpevole per il furto di quel reperto del quale proprio non riusciva a capacitarsi.

La ricostruzione dei fatti narrava che l’imputato, di nottetempo e insieme ad altri suoi complici riusciti a darsi alla fuga, veniva sorpreso all’interno di un’area archeologica e trovato in possesso del piccolo vaso, i cui esami tecnici riferivano trattarsi di una «lekythos», ovvero un recipiente per oli profumati o unguenti, risalente al V secolo a.C.

A sostegno della difesa veniva addotto che l’imputato non conosceva l’origine del manufatto, che aveva trovato per caso transitando in quel luogo e di non sapere chi fossero gli altri soggetti che si erano dati alla fuga durante l’intervento dei Carabinieri che lo trassero in arresto.

Con la Legge 9 marzo 2022, n. 22, il Parlamento ha approvato la riforma in materia di tutela del patrimonio culturale, introducendo nel codice penale alcune speciali fattispecie, già contemplate nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs.vo n. 42 del 2004), che con la nuova impostazione ricevono ora una più organica previsione.

Nell’intervento di questo mese tratteremo quello che potremmo definire il reato base in materia di tutela penale del patrimonio culturale: il furto di beni culturali.

Come già anticipato, la riforma ha introdotto nel codice penale il titolo VIII-bis rubricato «Dei delitti contro il patrimonio culturale», che si apre con l’art. 518-bis c.p. «Furto di beni culturali».

La fattispecie consta di due commi, in particolare:

1° comma: Chiunque si impossessa di un bene culturale mobile altrui, sottraendolo a chi lo detiene, al fine di trarne profitto, per sé o per altri, o si impossessa di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 927 a euro 1.500.

2° comma: La pena è della reclusione da quattro a dieci anni e della multa da euro 927 a euro 2.000 se il reato è aggravato da una o più delle circostanze previste nel primo comma dell’articolo 625 o se il furto di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini, è commesso da chi abbia ottenuto la concessione di ricerca prevista dalla legge.

La norma tutela il patrimonio culturale che riceve così protezione penale da illecite condotte di impossessamento.

Essa è speciale rispetto a quella prevista per il furto di cose mobili generiche, contemplato all’art. 624 c.p., che così recita: «Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione …».

In questa norma non vi è alcun riferimento alla natura del bene mobile sottratto, e questo spiega appunto la specialità dell’art. 518-bis c.p. nel senso che, in presenza di furto di bene culturale, troverà applicazione quest’ultima fattispecie.

Ai sensi dell’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs.vo n. 42 del 2004) per bene culturale dobbiamo intendere tutti quei beni pubblici che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, oppure di proprietà privata che, presentando le stesse caratteristiche, ne sia stata dichiarata la loro culturalità, ai sensi dell’art. 13 dello stesso Codice.

Ma la norma trova applicazione anche in relazione ai beni archeologici per espresso richiamo: (chiunque) … si impossessa di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini. Infatti tutti i beni provenienti dal sottosuolo o dai fondali marini sono naturalmente considerati beni archeologici e, per l’effetto dell’art. 91 del Codice, appartengono ope legis allo Stato.

Quindi, ricapitolando, la norma trova applicazione esclusivamente con riguardo ai beni culturali mobili indicati all’art. 10 (beni culturali pubblici e privati per i quali sia intervenuta la dichiarazione di culturalità, che presentano interesse storico, artistico, etnoantropologico e via dicendo) e art. 91 (beni archeologici che in quanto tali provengono dal sottosuolo o dai fondali marini).    

Fatta la dovuta precisazione, vediamo ora quali sono gli elementi oggettivamente e soggettivamente necessari per la sussistenza del reato.

Sotto il profilo oggettivo, per la ricorrenza del reato, è richiesto che il soggetto si impossessi del bene culturale mobile altrui, sottraendolo a chi lo detiene, oppure che si impossessi di beni archeologici appartenenti allo Stato.

Occorre, perciò, spiegare la portata di tre elementi fondamentali: la detenzione, l’impossessamento, la sottrazione del bene culturale.

La detenzione è un concetto piuttosto complesso che a volte viene confuso con quello di possesso. In termini assai generali, e tralasciando le analisi della dottrina e giurisprudenza che per ovvie ragioni non è il caso di citare in questa sede, possiamo dire che la detenzione individua una situazione nella quale il soggetto ha un potere fisico sul bene a cui corrisponde la mera intenzione di questi di tenerlo presso di sé (c.d. animus detinendi), senza che lo stesso soggetto eserciti ulteriori poteri su di esso, quali per esempio alienarlo.

Per fare un esempio, è il caso di un gallerista che tiene per la mostra un dipinto appartenente a terzi.

Con il possesso, invece, il soggetto, oltre ad avere un potere di fatto sul bene, si comporta in relazione ad esso come se ne fosse il proprietario, compie, cioè, atti dispositivi, quali per esempio l’alienazione (c.d. animus possidendi).

È di tutta evidenza che la legge penale, dovendo garantire una maggiore tutela al patrimonio e in particolare ai beni culturali, si preoccupa di prendere in esame anche quelle situazioni soggettive patrimoniali in cui i poteri del soggetto risultano affievoliti, quale è quella della detenzione, perché altrimenti vicende nelle quali non si ravvisassero tali ricorrenze soggettive, rimarrebbero impunite.

Passiamo ora in rassegna gli altri due elementi: l’impossessamento e la sottrazione.

Normalmente da un punto di vista temporale la sottrazione del bene avviene prima dell’impossessamento: il soggetto prima sottrae il bene e dopo se ne impossessa. 

La sottrazione si sostanzia attraverso una condotta che «determina l’uscita della cosa dalla signoria di fatto del precedente possessore»: si parla in tali casi di spossessamento del bene dal precedente titolare.

L’impossessamento si sostanzia attraverso l’ingresso del bene nella disponibilità del soggetto agente: «allo spossessamento deve seguire un nuovo impossessamento».

Dal punto di vista pratico è importante accertare il verificarsi dell’azione di impossessamento perché fino a quando il bene rimarrà nel raggio d’azione del legittimo possessore non può ravvisarsi il reato, ovvero, da valutare caso per caso, potrebbe tutt’al più ravvisarsi il tentato furto.

Poniamo un esempio: il gallerista che attraverso il sistema di videosorveglianza s’accorge che Tizio ha rubato il dipinto occultandolo sotto la giacca, ha possibilità di intervenire ed evitare il furto. In questo caso l’azione di impossessamento non si è ancora verificata, quindi, essendosi compiuta l’azione di sottrazione, il furto versa nella dimensione tentata.

Veniamo ora al profilo soggettivo.

La norma richiede che il soggetto abbia agito al fine di trarne profitto per sé o per altri, quindi siamo in presenza di un dolo specifico. Ciò significa che, affinché ricorra la fattispecie in esame, occorre dimostrare che il soggetto ha agito in vista del conseguimento di un profitto.

Dal punto di vista concreto, sembrerebbe alquanto difficoltoso dare la prova di una tale finalità, tuttavia la legge non richiede che il fine sia effettivamente conseguito, quanto piuttosto che l’agente miri a conseguirlo. Trattandosi di furto di bene culturale la finalità specifica non può che essere considerata in re ips direbbero i romani.

Ricapitolando: l’art. 518-bis c.p. punisce con la reclusione da due a sei anni e con la multa da € 927 a 1.500 (quindi siamo in presenza di un delitto e non di un reato contravvenzionale) chiunque si impossessa di un bene culturale mobile altrui, sottraendolo a chi lo detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, oppure si impossessa di beni appartenenti allo Stato in quanto provenienti dal sottosuolo o fondale marino (beni archeologici). Da notare che per quest’ultima ipotesi non è richiesta, ragionevolmente, la sottrazione perché il bene appartiene allo Stato.

Il secondo comma dell’art. 518-bis c.p. contempla alcune circostanze che aggravano il reato. Infatti, la norma prevede un aggravamento della pena da 4 a 10 anni e la multa da € 927 a 2000 se il fatto è commesso con una o più aggravanti prevista per il furto semplice (art. 625 c.p.) – quali per esempio se è commesso con violenza sulle cose (i tombaroli stradicano le recinzione delle aree archeologiche oltre che devastarne i terreni e infrangere i reperti) – oppure se, con riguardo ai reperti provenienti dal sottosuolo o dai fondali marina, è commesso da soggetto autorizzato ad eseguire le ricerche.

Come si ha modo di constatare il nuovo reato, soprattutto con il suo assetto sanzionatorio, legittima ora la polizia giudiziaria di procedere all’arresto obbligatorio, ai sensi dell’art. 380 c.p.p., del soggetto che venisse sorpreso nella flagranza del reato, possibilità questa preclusa nella precedente previsione contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Alla luce del nuovo assetto normativo il nostro imputato, cui si è inizialmente fatto riferimento, andrà sicuramente incontro alla condanna per furto aggravato in concorso di bene culturale, non rilevando quanto da egli affermato a sua discolpa, innanzitutto perché la natura archeologica del bene è stata provata dalla expertise dell’archeologo nominato dall’Autorità Giudiziaria, e poi perché non è necessario provare anche la sottrazione – che comunque resta di tutta evidenza – ma esclusivamente l’impossessamento della «lekythos» la quale, in quanto bene archeologico, è di per sé proprietà dello Stato.

In chiusura deve osservarsi che sul piano repressivo i nuovi reati mostrano effettivamente un concreto deterrente al fenomeno dell’impossessamento illecito dei beni culturali e quindi una maggiore tutela della nostra identità.

Bibliografia essenziale:

Codice Penale commentato, edizione aggiornata, edizione CEDAM.

G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, parte speciale – I delitti contro il patrimonio, Vol. II, tomo secondo, Zanichelli Editore.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Leonardo Miucci

Scritto in data: 15 maggio 2022

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About Leonardo Miucci 48 Articles
Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, precedentemente in servizio presso la Sezione TPC di Siracusa