La fabbrica di San Pietro e il corredo dell’Imperatrice Maria: storia di una scoperta e della dispersione di un importante tesoro

Vi fu un tempo in cui Roma era in fermento. La parte ovest di quella città, posta sull’altra sponda del Tevere, nel luogo in cui venne martirizzato Pietro e dove sorgeva una grande basilica ormai in rovina, si preparava ad accogliere il più famoso cantiere del Cinquecento: quello della Basilica Vaticana. Si succedettero importanti pontefici, noti artisti e architetti della storia, come Michelangelo, Raffaello, Giuliano da Sangallo, Bernini. Eppure, quella fabbrica così imponente non era composta solamente da alzati massicci, cupole e maestosi monumenti funebri. Al di sotto di quell’immensa aula liturgica e tutt’intorno si estendeva un sepolcreto pluristratificato che accoglieva, oltre ai pagani, soprattutto una vastità di cristiani, desiderosi di essere deposti nei pressi del sepolcro dell’apostolo e martire Simone, detto Pietro.

Accanto alla Basilica Vaticana, perciò, specificamente sulla sinistra, sorgevano due grandi mausolei, conosciuti anche come “Rotonde”: quella di Sant’Andrea e quella di Santa Petronilla. Nella tradizione, quest’ultima sarebbe stata la figlia di Pietro, vergine e martire, sepolta nelle catacombe di Domitilla nei pressi della tomba dei SS. Nereo ed Achilleo, i cui resti sarebbero poi stati traslati in Vaticano quando Pipino il Breve, re dei Franchi, risultò vittorioso contro i Longobardi. Simbolicamente come Petronilla era figlia di Pietro, così il Regno dei Franchi sarebbe divenuto figlio della Chiesa romana. Il trasferimento delle spoglie di Santa Petronilla avvenne in realtà con Paolo I, immediatamente dopo la morte del papa Stefano II che aveva fatto la sua promessa al re dei Franchi. Il pontefice aveva fatto deporre i resti della santa sotto un altare; inoltre, aveva fatto eseguire delle pitture all’interno del mausoleo che la celebrassero, testimonianze poi distrutte nel 1464 quando vennero effettuati alcuni lavori di rifacimento delle finestre.

Il mausoleo di Onorio assunse perciò il nome di Rotonda di Santa Petronilla. In realtà, quest’ultima con ogni probabilità non era legata a San Pietro, ma la suggestione del nome fece sorgere, come spesso è accaduto, una storia intorno alla figura della santa.

Ad ogni modo, non si vuole intraprendere una questione agiografica, quanto piuttosto una archeologica. Gli scavi per la costruzione della nuova Basilica Vaticana e l’installazione del primo nucleo delle Grotte fecero sì che dalle terre del colle emergessero sepolcri e sarcofagi. Le indagini riguardarono anche la nostra Rotonda caduta ormai “in ruina” e abbattuta già verso gli anni ’20 del Cinquecento.

Narra dettagliatamente Antonio Bosio, riportando notizie apprese da Lucio Fauno (Delle Antichità di Roma, 1552), nella sua opera “Roma Sotterranea” pubblicata postuma dal Padre Giovanni Severano, che sotto il pontificato di Paolo III venne scoperto il sepolcro di Maria, figlia di Stilicone, sposa dell’Imperatore Onorio, morta nel 408, all’interno di un ipogeo nella Cappella di Santa Maria Genitrice posta in asse con la Rotonda di Petronilla. Le spoglie, ricoperte di un sudario aureo, erano custodite all’interno di un sarcofago in marmo lidio – riutilizzato poi dal pontefice per la sua sepoltura – inserito a sua volta dentro un grande sarcofago in porfido rosso egiziano.

La descrizione che Bosio ne lascia mostra un corredo ricchissimo:

«Delle Auguste sappiamo di certo, che nel Vaticano fu sepellita Maria figliuola di Stilicone, e di Serena nobilissima donna, sposa del sudetto Honorio Imperatore, il cui sepolcro fu scoperto l’anno 1544, à dì 4 di Febraro nel Pontificato di Paolo Terzo: poiché rovinandosi il vecchio Tempio rotondo di Santa Petronilla, situato nella destra parte della Basilica, e cavandosi i fondamenti della nuova Cappella, si ritrovò una grand’Arca di marmo, circondata intorno di grossissimo muro; la quale essendosi aperta, si vide in essa un Corpo, vestito di vestimenti d’oro; il cui Capo con molti involti era circondato di un velo, tessuto parimente d’oro; la faccia era coperta d’un simil velo, ma però disteso; de’ quali ornamenti d’oro (essendo stati fusi) se ne cavò di peso libre quaranta. Erano quasi tutte le ossa ridotte in polvere; e vi rimanevano solo i stinchi, i denti, et i capelli, i quali davano indizio, che quello fosse il Corpo d’una tenera fanciulla; e si conietturò facilmente esser di detta Maria sposa d’Honorio, dalle cose ritrovare dentro dett’Arca. Percioché dal lato haveva una scattola d’argento piena di diversi vasi di christallo, di agate, e d’altre pietre; e similmente di diversi animaletti con alcuni ornamenti d’oro; et appresso a questa era una cassetta, coperta d’argento indorato con alcuni ornamenti di teste chiodetti d’argento; nella quale erano molti anelli d’oro, tutti con pietre preziose; alcune collane, catenette, et altri lavori con gioje; le quali cose tutte sono minutamente descritte da Lucio Fauno, e noi l’habbiamo ancora ritrovate notate in un libro manoscritto di quel tempo, e sono le seguenti.

Vasi, e diversi pezzi di christallo, fra grandi e piccoli, numero trenta; fra quali ve n’erano due, come tazze non molto grandi, l’una rotonda, e l’altra di figura ovata con figurette di mezzo rilievo bellissime.

Una lumaca di christallo in forma d’una conchiglia marina , acconcia in una lucerna con oro fino; del quale n’è prima coperta la bocca della lumaca, restandovi solo un buco in mezo da porvi l’olio; a lato al quale si vedeva con un chiodo confitta una mosca d’oro mobile , che copriva , o discopriva il buco. Era d’oro similmente la punta con il pippio da porvi lo stopino, tirato in lungo, et acuto, con bellissima grazia; et in modo attaccato con il christallo, che pareva esservi nato insieme.

Alcuni pezzi d’agata con certi animaletti, et alcuni vasi fra tutti numero otto, fra quali vi erano due vasi bellissimi, l’uno sembrava di quelle ampolle di vetro grandi, e piatte da tenervi olio, o altro simile liquore; in modo fatto, e così bello e sottile, ch’era una maraviglia a mirarlo; e l’altro vaso era fatto a guida d’una di quelle schiumarole con il suo manico, ch’usano in Roma per cavar l’acqua dalle vettine.

Quattro vasetti d’oro di diverse sorti, et un altro vaso picciolo d’oro, di forma ovata, con il suo coperchio con gioje attorno.

Un cuore d’oro picciolo a guida d’un pendente con sei gioje incassate. Due pendenti da orecchi di smeraldo, o plasma, con due giacinti. Un pendente in forma di un grappo d’uva, fatto di pietre pavonazze. Otto altri pendenti piccioli d’oro di diverse sorti, con varie pietre incastrate. Anelli, e verghette d’oro di diverse sorti, con diverse gioje, e pietre preziose incastratevi, in tutto numero cinquat’otto; e fra quelli uno di osso rosso con diverse pietre. Tre animaletti di osso rosso. Un fermaglio, o monile, o collana d’oro con cinque gioje di diverse sorti, legativi dentro; e ventiquattro altri fermagli d’oro di diverse sorti , con varie giohe incastrate in essi. Un pezzo di una collana piccola sottile, con certe pietre verdi infilzate. Un’altra collanina d’oro, con ventidue pater nostri di plasma. Un’altra collanina, con nove pater nostri di zaffiro intagliate a mandole. Un’altra collanina d’oro tirato raccolto, rotta in quattro pezzi. Doi bottoncini d’oro, e quattordici magliette d’oro. Un tondo d’oro, come un’Agnus Dei, con lettere attorno, che dicevano: “Maria Domina Nostra Florentissina”. E dall’altra parte: “Stilico vivat”.

Doi manichi d’oro, con certe pietre verdi. Due agucchie grosse, o stillette per dirizzar i crini; l’uno d’oro, lungo un palmo incirca, con lettere, che dicevano da una parte: “Domino Nostro Honorio”. E dall’altra parte: “Domina Nostra Maria”. E l’altro d’argento senza lettere.

Una lamina d’oro, nella quale erano scolpiti con lettere greche Michael, Gabriel, Raphael, Uriel.

Uno smeraldo legato in oro, nel quale era intagliata una testa, che fu giudicata esser del detto Imperatore Honorio, da sigillare, stimata di valore di scudi 500. E parecchi altri frammenti di smeraldi, e d’altre pietre, e certe perle grosse, ma guasta per l’humidità; se bene l’altre cose sudette erano tanto ben conservate, che paravano fatte all’hora».

Dopo una dettagliata descrizione del corredo contenuto all’interno del sarcofago ci saremmo almeno aspettati che tutto ciò, considerando l’epoca, costituisse un tesoretto, un nucleo antiquario, una collezione. E invece le parole di Bosio sorprendono un po’:

«Tutte le sudette cose furono portate a Papa Paolo Terzo, che all’hora era Pontefice; il quale (come ha notato Giulio Herculano, e detto Lucio Fauno) dalla vendita di esse ne cavò quaranta libre d’oro (come si è detto) e gli applicò alla nuova fabbrica della Basilica».

Paolo III, per finanziare ulteriormente i lavori dell’immensa Basilica Vaticana, vendette ogni manufatto ritrovato appartenente all’Imperatrice Maria, le cui spoglie furono destinate al Polyandrium, l’ossario comune. Non si può condannare il Pontefice per un gesto compiuto nel Cinquecento, quando la brama di possesso delle antichità era talmente radicata che le collezioni si arricchivano d’un giorno all’altro di magnifici pezzi provenienti dal sottosuolo di ville, terreni e basiliche.

Eppure, se il Papa Farnese non avesse preso una simile decisione, forse ora nelle vetrine dei nostri musei, o forse, di quelli Vaticani, saremmo in grado di osservare lo splendore del corredo di Maria, di percepire la luminosità dell’oro, la bellezza delle gemme intagliate e l’archeologica opacità dei vetri. All’epoca lo Stato della Chiesa si era già dotato di alcune leggi che tutelavano i beni culturali:

  • nel 1425 Martino V aveva promulgato la bolla Etsi de cunctarum con la quale venivano stabiliti i criteri di restauro e di ricostruzione degli edifici, proibendo di prelevare i marmi dagli antichi monumenti;
  • nel 1462 Pio II con la bolla Cum almam nostram urbaem vietava la demolizione o il danneggiamento di monumenti e rovine, pena la scomunica e la confisca dei beni, ma il Pontefice non si fece scrupoli a spoliare il Portico di Ottavia destinando i marmi alla costruzione del perduto pulpito di San Pietro;
  • nel 1474 Sisto IV con la bolla Cum provida Sanctorum Patrum decrete vietava persino l’alienazione delle opere custodite nelle chiese.

Ma tutto ciò non era bastato. In fin dei conti, la monumentalizzazione del sepolcro del martire più importante di Roma, nonché Principe degli Apostoli insieme a Paolo e pietra miliare della Chiesa cristiana d’Occidente, valeva molto più del corredo di un’Imperatrice. La vendita di oggetti archeologici era finalizzata a una “buona causa”. E così dell’Imperatrice Maria non rimane altro che un ricordo.

Un solo oggetto tra tutti si è conservato: il ciondolo con l’iscrizione “Stilicho vivat” che, in realtà, riporta “Honori(us)/Maria/Stelicho/Serhna/vivatis” e sull’altro lato “Stelicho/ Serena/ Termanthia/ Eycheri(us) vivatis”. Sin dalla metà del XVI secolo, il manufatto fu posseduto da Filippo Archinti, vicario generale di papa Paolo III e si ipotizza che fosse stato quest’ultimo a regalarlo al proprio collaboratore. Questa piccola opera altro non era se non un reliquiario portatile.

Bulla facente parte dei doni nuziali di Onorio a Maria (foto tratta da Wikipedia)

Forse anche lo stipulum in agata, conservato presso il Museo degli Argenti di Firenze, sarebbe da ricondurre al “vaso fatto a guida d’una di quelle schiumarole con il suo manico, ch’usano in Roma per cavar l’acqua dalle vettine”; la moltitudine di gemme fu, invece, utilizzata per essere incastonata nella tiara papale e l’oro fuso.

Viene da chiedersi dove si trovino tutti gli altri reperti (inclusi i vasi in agata e cristallo di rocca, facenti parte in un primo momento della collezione Farnese), in quale paese e in quale collezione siano finiti, quale storia si sia accumulata nei secoli successivi alla dispersione. Si troveranno nei magazzini di un museo? Nelle sue vetrine? Oppure tutti i singoli pezzi furono fusi? O ancora, sono attualmente parte di preziose collezioni private? Con ogni probabilità non lo sapremo mai. Sarebbe troppo difficile, se non addirittura quasi infattibile risalire ai passaggi di proprietà che questi oggetti subirono. Magari un giorno torneranno, magari un giorno ne sapremo di più. Perché alla fine il ruolo dell’archeologo è molto simile a quello di un detective: esaminare minuziosamente ogni testimonianza per provare a ricostruire una storia, anche quando tutto sembra perduto, anche quando la missione sembra impossibile.

Bibliografia e sitografia:

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Cristina Cumbo

Scritto in data: 7 giugno 2020

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Archeologa e ricercatrice; Dottore di ricerca in Archeologia Cristiana; amministratrice, fondatrice e responsabile del blog #LaTPC, nonché della pagina Facebook "La Tutela del Patrimonio Culturale". Ha frequentato il primo corso di perfezionamento in tutela del patrimonio culturale in collaborazione con il Comando Carabinieri TPC presso l'Università di Roma Tre (2013) e il master annuale di II livello attivo presso il medesimo ateneo (2019).