La tutela del Patrimonio Culturale in Italia dalle origini alla Seconda Guerra Mondiale – Parte 2: dall’Unità d’Italia alla Legge per la tutela delle bellezze naturali

Palazzo Montecitorio (foto di Cristina Cumbo)

Nel precedente articolo abbiamo fornito un quadro generale sulla normativa di tutela negli Stati preunitari. Oggi vogliamo, proseguire, in questi nostri approfondimenti, andando a delineare le tappe legislative che hanno condotto alle prime organiche leggi di tutela promulgate a livello nazionale nei primi anni del Novecento.

Se abbiamo visto, quindi, che i singoli Stati italiani si erano già dotati da tempo, ognuno in forme e con modalità diverse, di una normativa che regolasse la tutela del patrimonio artistico, archeologico e monumentale, una volta ottenuta l’unità politica dell’Italia, emerse, però, la mancanza di una struttura generale e una legislazione organica di riferimento per la tutela del patrimonio culturale. Si doveva creare un’organizzazione centrale che potesse guidare le azioni di tutela su tutta la penisola. Le singole norme preunitarie, essendo nate e sviluppatesi in riferimento alle identità locali, risultavano difficilmente riconducibili ad una singola legge di carattere generale. Le difficoltà maggiori si riscontravano nel cercare di superare il particolarismo regionale, continuando comunque a riconoscere l’importanza dell’identità locale, ma anche nel trovare il giusto compromesso tra proprietà privata e interesse pubblico.

Lo Statuto Albertino (Statuto del Regno o Statuto Fondamentale della Monarchia di Savoia, noto come Statuto Albertino adottato dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848 a Torino), in piena coerenza con i principi liberali, confermava la non violabilità di “tutte le proprietà, senza alcuna eccezione” (art. 29). Furono, inoltre, cancellati dal Codice Civile del 1865 il fedecommesso e il maggiorascato, i quali erano già stati aboliti durante l’occupazione francese e reintrodotti da Pio VII, proprio per garantire l’integrità delle collezioni d’arte e dei patrimoni familiari. Secondo questi principi, infatti, chi esercitava la proprietà su una collezione artistica non poteva smembrarla e venderne una parte. Era, quindi, tenuto alla sua conservazione. La collezione così veniva trasmessa integra agli eredi. L’abolizione dei vincoli fidecommessari era rischiosa per due aspetti: in prima istanza perché avrebbe potuto compromettere la conservazione delle collezioni; in secondo luogo, perché sarebbe stato difficile mantenere le stesse sul territorio nazionale.

Un primo cambiamento in questo senso si ebbe già con la legge 25 giugno 1865, n. 2359, che determinava l’espropriazione, da parte dello Stato, di beni privati per causa di pubblica utilità. Le disposizioni che avevano abolito fedecommesso e maggiorascato, vennero sospese per il territorio di Roma e provincia nel 1870 (Regio Decreto 27 novembre 1870, n. 6030). L’anno successivo la legge De Falco (Legge 28 giugno 1871, n. 286, conosciuta come Legge De Falco perché promulgata su proposta del ministro di Grazia e Giustizia Giovanni De Falco) sanciva l’inalienabilità ed indivisibilità delle collezioni romane “finché non sia per Legge speciale altrimenti provveduto” (art. 4). In questo modo la legislazione preunitaria sopravviveva, ma si attendeva comunque un provvedimento che disciplinasse organicamente la materia e che tardava ad arrivare.

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, l’Italia fu colpita da numerose esportazioni illecite. Tra queste emblematica è la vendita (1891) di un cospicuo numero di opere della collezione del principe Maffeo Barberini Colonna di Sciarra al marchese Alessandro De Ribiers, il quale le esportò in Francia. Abbiamo riportato solo il caso più eclatante di esportazione illecita, ma la questione della circolazione dei beni artistici, sollevò un acceso dibattito. I vari ministri della Pubblica Istruzione, nonché personalità eminenti della cultura italiana, fornirono il proprio contributo. Come vedremo più avanti, approfondendo la questione della catalogazione, proprio nella seconda metà del XIX secolo venne avviato un imponente lavoro di censimento del patrimonio, ad opera dei due conoscitori, Giovanni Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli. Dato il pericolo di dispersione del patrimonio artistico religioso degli enti soppressi, il ministro De Sanctis, incaricò proprio Cavalcaselle e Morelli di effettuare l’opera di catalogazione di tutti gli oggetti d’arte esistenti all’interno delle chiese e degli enti religiosi, presenti sul territorio di Umbria e Marche.

Nonostante il contributo di Cavalcaselle, frutto del lavoro svolto con Morelli, Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di Belle Arti e sulla riforma dell’insegnamento accademico del 1862, fornisse informazioni e suggerimenti utili circa la catalogazione e il controllo del patrimonio, non vi era un criterio univoco, adattato e adattabile a tutto il territorio nazionale (la stessa opera di Cavalcaselle e Morelli era limitata all’area geografica compresa da Umbria e Marche).

Il ministro Cesare Correnti, con un disegno di legge del 1972, pose l’attenzione sull’esigenza di rivedere la posizione politica assunta nei confronti della tutela del patrimonio culturale. La visione politica dei beni culturali di allora era elitaria, in cui organizzazione istituzionale e amministrativa delle belle arti era affidata ad una élite  di intellettuali – burocrati. Ecco, allora che, per quanto riguarda l’organizzazione amministrativa, nel 1874 il ministro Cantelli istituiva le Commissioni conservatrici dei monumenti e delle opere d’arte. L’anno seguente, il successore di Cantelli, Ruggero Bonghi, creò le figure degli Ispettori onorari e istituì, presso il Ministero della Pubblica Istruzione la Direzione Generale degli Scavi e dei Musei. Il primo Direttore Generale fu Giuseppe Fiorelli, archeologo, che nel 1881 pubblicava una raccolta dei provvedimenti preunitari in materia di tutela. Si deve, inoltre, a Fiorelli la riorganizzazione dell’amministrazione periferica e l’avvio di una catalogazione completa, che comprendesse tutti i beni presenti sul territorio, ivi compresi quelli di proprietà privata.

La prima legislazione nazionale arriverà, però, solo con la cosiddetta legge Nasi del 1902 (Legge 12 giugno 1902, n. 185. Promulgata su disegno di legge Gallo, verrà integrata con il Regio Decreto del 17 luglio 1904, n. 431) e la legge Rava – Rosadi del 1909 (Legge 20 giugno 1909, n. 364). La legge del 1902, pur acquistando, infine, valore sull’intero territorio nazionale e introducendo la cosiddetta dichiarazione di antichità e pregio, non rappresentava ancora un concreto strumento per arginare la dispersione del patrimonio. Fu necessaria, appena un anno dopo, un’altra legge che andasse a controllare severamente l’esportazione (Legge 27 giugno 1903, n. 242). Le ancora evidenti carenze delle disposizioni in maniera di tutela, condussero al fruttuoso dibatto che ebbe come risultato la legge del 1909. La legge 1902 testimonia, quindi, quanto si stesse diffondendo una più profonda consapevolezza circa i temi della salvaguardia e della tutela del patrimonio culturale. I primissimi anni del Novecento, per quanto riguarda la tutela del patrimonio culturale e delle bellezze naturali, sono indissolubilmente legati ai nomi di Luigi Rava, Corrado Ricci e Giovanni Rosadi.

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Luigi Rava, La Pinta di Ravenna, 1926, E.N.I.T.

L’impegno di Rava nel campo, è riconosciuto soprattutto nell’approvazione, a sua iniziativa, della legge 16 luglio 1905 n. 441, provvedimento sulla tutela della Pineta di Ravenna, che costituì, sia pur in ambito locale, un esempio di tutela del paesaggio, sancendo l’inalienabilità dell’area. La legge del 1905 fu un importante passo verso una vera e propria legislazione a tutela del paesaggio, che arrivò con la legge Bottai del 1939.

La Legge per gli Uffici e il Personale delle Antichità e Belle Arti del 27 giugno 1907 vide la piena collaborazione delle tre importanti personalità: essa, infatti, fu proposta dalla Commissione nominata dal Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Rava, a cui presero parte il Direttore Generale delle Antichità e Belle arti, Corrado Ricci, e il deputato Giovanni Rosadi. Nel 1907 arrivò anche la legge n. 500 del 14 luglio, proposta da Rava su spinta di Ricci, che istituiva un “Monte per le Belle Arti”, vale a dire un fondo di cinque milioni di lire a disposizione per le Belle Arti. Un’elargizione che sanciva, così, un importante cambiamento di rotta nella gestione economica del patrimonio culturale.

La sospirata legge del 1909 fu di fondamentale importanza, giacché essa tracciò le linee portanti della moderna disciplina di tutela. Vogliamo introdurre le motivazioni di tale importanza attraverso le parole di Roberto Balzani:

La storia della legge n. 364 del 20 giugno 1909 «Per le antichità e le belle arti» vale la pena di essere raccontata per una serie di buoni motivi. Il primo, intrinseco alla materia che disciplina, risiede nell’istituzione di un sistema di vincoli più forti a tutela del patrimonio culturale nazionale, ed in particolare dei beni mobili ed artistici. Il secondo, più generale, riguarda il rapporto fra pubblico e privato nella sensibilità dell’opinione pubblica e della classe dirigente d’inizio secolo. […] (Balzani R., Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’età giolittiana, Bologna, Il Mulino, 2003 p. 11).

La legge introdusse per la prima volta la dizione di “cose mobili o immobili di interesse storico, archeologico o artistico”, circoscrivendo, così, quali fossero i beni da sottoporre a tutela e distinguendo i beni mobili e immobili, quindi anche gli enti preposti alla salvaguardia degli uni o degli altri. La legge introduceva, inoltre, la inalienabilità del patrimonio culturale. I beni, o meglio, le “cose” che fossero di proprietà dello Stato o di altri enti pubblici o morali erano sottoposte a vincolo. Il vincolo, che la legge ridefiniva “notifica”, era lo strumento giuridico che richiedeva l’osservanza di una serie di comportamenti da parte di soggetti privati, detentori o proprietari di “cose di importante interesse artistico o storico”, in virtù di un interesse pubblico. Lo Stato poteva, in questo senso, far valere il diritto di prelazione, come strumento che andasse ad arginare la dispersione del patrimonio per alienazione ed esportazione. Infine, la norma e il suo regolamento attuativo del 1913 (Regio Decreto del 30 gennaio 1913, n. 363) sancivano la nascita delle Soprintendenze ai monumenti, archeologiche e di quelle preposte alle gallerie; venne ribadita l’esigenza di un catalogo dei monumenti e delle opere d’arte di proprietà statale, con una regolamentazione che rendesse il lavoro uniforme per tutti gli inventari nazionali. Il 23 giugno 1912, fu emanata d’urgenza, per salvare Villa Aldobrandini a Roma e altre ville storiche della città, la legge n. 688, che includeva nella giurisdizione della tutela anche le ville, i parchi e i giardini di interesse storico o artistico. Disponendo, così, un provvedimento per la protezione delle bellezze naturali, si dava vita ad un primo embrione della legge poi varata in merito dieci anni dopo. Rava e Rosadi si erano già fatti estensori della legge n. 441 del 16 luglio 1905 con la quale, per la prima volta, veniva sancita l’inalienabilità di un’area di interesse paesaggistico, vale a dire la pineta di Ravenna.

A conclusione di questo approfondimento, accenniamo anche alla tutela del paesaggio. Al dibattito, infatti, prese parte Benedetto Croce il quale fu alla guida del dicastero della Pubblica Istruzione, nel quinto e ultimo governo Giolitti, dal 1920 al 1921. Egli presentò, nella seduta del 25 settembre 1920 in Senato il disegno di legge Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico (Disegno di legge 204 del 1920), divenuto poi legge 11 giugno 1922, n. 778, prototipo di un regime amministrativo vincolistico che sarà alla base delle leggi Bottai sulle cose d’arte e i beni culturali del 1939. La legge del 1922 sottoponeva, quindi, a tutela “le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche” (Art. 1). Anche in questo caso sono anteposti gli interessi di pubblica utilità rispetto alla proprietà privata: i beni di interesse paesaggistico sono soggetti a notifica, la quale deve essere trascritta dai “proprietari possessori o detentori a qualsiasi titolo degli immobili quali siano stati oggetto di detta dichiarazione” nei registri catastali (Art. 2). In virtù del principio di pubblica utilità e pubblico godimento, l’articolo 4 della norma stabiliva che “nei luoghi nei quali si trovano cose immobili soggette alle disposizioni della presente legge, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori possono essere prescritte dall’autorità governativa le distanze, le misure e le altre norme necessarie, affinché le nuove opere non danneggiano lo aspetto e lo stato di pieno godimento delle cose e delle bellezze panoramiche”.

Bibliografia essenziale

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A. Ragusa (a cura di), La Nazione allo specchio, Roma, Piero Lacaita Editore, 2012.

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G. Volpe, La parabola della tutela artistica italiana da Carlo Fea a Giovanni Rosadi, postfazione ad A. Emiliani, Leggi, bandi, provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi Stati italiani 1571-1860, Bologna 1996.

G. Volpe, Manuale di legislazione dei beni culturali, Padova, Cedam, 2007.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Caterina Zaru

Foto di copertina di Cristina Cumbo. Ne è vietata la diffusione senza l’esplicito consenso dell’autrice e/o l’indicazione dei credits fotografici, nonché del link relativo al presente articolo.

Scritto in data: 21 febbraio 2021

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