Fino a pochi giorni fa le strade di Roma erano affollate. L’emergenza relativa alla rapida diffusione del Covid-19 ha reso la città quasi deserta: i turisti non riempiono più i ristoranti, mangiando quella pizza terribilmente accostata a un cappuccino; gli studenti non si recano a scuola o all’università; poche sono le persone che si affrettano (in macchina) per andare fisicamente a lavoro, preferendo o potendo svolgere le proprie attività da casa. Qualcuno esce per portare il cane fuori, una breve passeggiata che dura pochi minuti e immediatamente torna il coprifuoco. Questo momento passerà, siamo tutti fiduciosi, a patto di collaborare. E solo poche ore fa è giunta la notizia che ci aspettavamo: la zona rossa, da oggi, è stata estesa a tutto il territorio Italiano. Ce la faremo, andrà tutto bene.
Io riprendo però una riflessione a partire da un terminus ante quem, quando le strade erano, appunto, affollate e brulicavano di turisti, quando la sottoscritta se ne andava in giro per Roma a compiere le sue ricerche all’interno di biblioteche, archivi e siti archeologici.
Via Margutta: sono le 11.30 circa di una giornata nuvolosa e piuttosto calda per essere febbraio. La percorro al contrario rispetto ai miei standard, ovvero da piazza di Spagna a Piazza del Popolo, mentre i passi dei miei stivali risuonano sui sanpietrini. Sono quasi sola. La folla si è riversata in via del Corso e via del Babuino, pronta ad assaltare i bar per la pausa pranzo. Sto facendo un giro lungo per andare a prendere la metro che mi riporterà a casa in pochi minuti.
Mi soffermo a guardare la prima vetrina di un negozio di bigiotteria che espone gioielli fatti a mano; si susseguono poi le gallerie d’arte, in cui l’astrattismo si accosta ai paesaggi, opere d’artisti emergenti sono poste accanto a quelle di personaggi più famosi, ma rimango qualche minuto in più ad osservare reperti archeologici “da collezione” in bella mostra. Uno scatto fotografico alla Fontana degi Artisti perché c’è quello sfondo dell’edera rampicante che, senza turisti, le rende giustizia, e proseguo fino a una panchina, sormontata da una piccola cabina Enel. Ricordo di averla immortalata in uno dei miei mille scatti compulsivi con il vecchio cellulare Samsung, postandola poi su Instagram tra le opere di street art. Come forse ho già detto, a parte rari casi, non amo la pittura sui muri. Pur riconoscendo che alcune opere siano veramente notevoli, ritengo che non si debba imbrattare le strutture, a meno che non esistano progetti di riqualificazione particolari che si rivolgono nello specifico agli street artists, come è accaduto per esempio a Roma nel quartiere Ostiense.
Mi fermo perciò davanti alla cabina Enel, accanto alla Sesto Senso Art Gallery, e vedo lo sportellino colorato, con l’immagine di una donna, nascosta nell’ombra, il cui volto è completamente immerso nel buio; quella figura si affaccia, quasi scostando una saracinesca. Eppure c’è qualcosa che non va. La cornice sembra staccata dal resto e in basso è comparsa una scritta in rosso: “Here there was a street art work stolen” (qui c’era un’opera di street art rubata). Nella galleria vicina, scorgo una riproduzione di quell’opera, incorniciata e appesa sulla destra.
Rubata. Uno sportellino dell’Enel, divenuto un’opera d’arte, è stato rubato. Chi potrebbe volersi mettere un simile oggetto nella propria casa? È una domanda comune da porsi, ma gli appassionati d’arte, i collezionisti “seriali”, non si fanno scrupoli. Qualche tempo fa vidi un documentario sulla street art, trasmesso dalla Rai (Art Night: L’uomo che rubò Banksy). Si concentrava sul noto artista Banksy e, in particolare, su colui che rubò una sua opera dipinta su un muro di Betlemme. Rimasi sbalordita perché si giunse addirittura a tagliare il muro stesso. Chi potrebbe volere un muro dentro casa per il solo gusto di possedere un’opera di Banksy? C’è da considerare l’ingombro, il peso, l’assoluta decontestualizzazione dell’opera… il fatto di aver tagliato una porzione di palazzo…
Il ragionamento è quindi lo stesso: brama di possesso e nulla più, cui si aggiunge il senso di avere un oggetto raro e, data la quotazione dell’autore, corrispondente a un certo valore economico.
Da molto tempo non passavo in via Margutta. Mi ero, però, accorta del fatto che lo sportellino fosse stato sostituito da uno nuovo, anonimo e grigio. Non avevo pensato al furto, eppure tant’è. La scomparsa dell’opera di Antonio Tamburro, denominata “Nell’ombra”, risale alla scorsa estate, nello specifico alla notte tra il 25 e il 26 luglio 2019. Il solo ad avere una visione positiva fu lo stesso artista, sostenendo che il ladro dovesse essere una persona che amava l’arte visto che l’opera non è di grande pregio. Infatti è proprio così: non sarà di grande pregio, ma è particolare, rara, e la rarità la rende di pregio.
Ancora in quel documentario che citavo, veniva posto un altro problema: quello del diritto d’autore. Effettivamente, il solo a non guadagnare dalla vendita dell’opera è sempre e solo l’artista. Quando un’opera di street art viene trafugata, il ladro ne guadagna dalla vendita a un acquirente/galleria e quest’ultimo/a ne guadagna dalla cessione a un collezionista.
Accantonando per un attimo la street art, voglio concentrarmi su un altro tipo di arte, quella delle cosiddette Madonnelle collocate agli angoli degli incroci del centro storico di Roma. Molte sono antiche, altre più contemporanee, ma pur sempre testimonianze devoziali e, logicamente, culturali. Tempo fa mi occupai della Madonnella scomparsa in via di Panico, nell’interno di Corso Vittorio Emanuele II. Ci si chiedeva se fosse stata rubata o in restauro (in quest’ultimo caso da molti anni, almeno dal 2000) e perché, prima del maggio 2019, la Sovrintendenza Capitolina non avesse provveduto con l’inserimento di un’immagine temporanea che restituisse la funzionalità a quella cornice vuota e ben visibile. Erano comparse scritte e figure non proprio idonee, volte comunque a sottolineare una mancanza, evidentemente avvertita dalla popolazione locale.
Ebbene, dirigendomi verso la fermata del bus e percorrendo una via più lunga rispetto al solito, mi sono ritrovata a passare in via di Panico. Con mio immenso stupore, la cornice era nuovamente occupata dal dipinto con San Filippo Neri inginocchiato al cospetto della Madonna con Bambino. Mi avvicino: è proprio lui, non una replica, bensì l’originale. E a terra non sono più depositati sacchetti dell’immondizia. Avverto una scintilla di soddisfazione, pensando – forse un po’ troppo in grande – che l’aver riportato attenzione su alcuni temi abbia raggiunto infine la sensibilità di qualcuno. Poi torno con i piedi a terra e immagino solo che il restauro sia stato finalmente terminato.
Un’opera scompare e un’altra riappare. Roma è così: muta di continuo, ma al contempo è sempre uguale a se stessa, nelle sue strade, nella sua storia e nelle sue mille opere d’arte.
Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Cristina Cumbo.
Foto di Cristina Cumbo. Ne è vietata la diffusione senza l’esplicito consenso dell’autrice e/o l’indicazione dei credits fotografici, nonché del link relativo al presente articolo.
In copertina: Sesto Senso Art Gallery, Antonio Tamburro (foto di Cristina Cumbo)
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Scritto in data: 10 marzo 2020
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