Storia e beni culturali: quale rapporto? Una riflessione sull’utilità della conoscenza storica per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale

Voglio aprire questa mia collaborazione con il blog ‘LaTPC’ con una riflessione personale sul rapporto tra storia e patrimonio culturale. La domanda sulla quale impostare la riflessione è proprio questa: ‘Storia e patrimonio culturale: quale relazione?’.

È una domanda che mi sono posto una prima volta quando, nell’ormai lontano anno accademico 2015-16, da storico, frequentai il master ‘Esperti nella tutela del patrimonio culturale’ presso l’Università ‘Roma Tre’; una domanda che è tornata alla mente allorché, qualche mese fa, mi fu proposto di collaborare con il blog.

Come può uno storico contribuire alla tutela del patrimonio culturale? Come la stessa conoscenza storica può dare il proprio contributo? Quali mezzi usa? Quali relazioni tra i due ambiti?

Preciso ulteriormente che non pretendo, attraverso questo scritto, fornire una risposta risolutiva alla questione. Il mio intento è, più semplicemente, quello di effettuare e condividere una riflessione dalla quale possa, a sua volta, nascere un dibattito sul problema posto, in quanto ritengo che è solamente attraverso il confronto tra idee che nasce una conoscenza più completa, una coscienza più matura di sé ed un continuo stimolo a mettersi in gioco e migliorarsi costantemente. E la stessa storia è piena di esempi di questo tipo, di scambi di esperienze tra i vari gruppi umani attraverso i quali – volendo semplificare al massimo – è maturata la civiltà giungendo al punto in cui siamo[1].

Quando frequentai il master mi sentivo fortemente a disagio. Era un disagio didattico-metodologico in quanto ritornava forte nella mia mente la domanda ‘Cosa ci faccio io, storico puro, tra storici dell’arte, archeologi, funzionari di Soprintendenze, che sono molto più abituati ad avere a che fare con i beni culturali? Come posso contribuire?’ Il disagio nasceva anche dal dover familiarizzare con una terminologia e un metodo di approccio ai temi affrontati che ritenevo lontani e quasi incompatibili con me.

Cominciai a ricredermi, almeno parzialmente, riflettendo sul concetto – più volte posto alla nostra attenzione – di diagnostica umanistica, vale a dire sulla capacità degli esperti di beni culturali e oggetti d’arte in genere, di analizzare quegli oggetti facendo ricorso alle proprie conoscenze e alla propria formazione in ambito artistico/umanistico. Detto in maniera semplice è un po’ come se lo storico dell’arte, l’archeologo e, più in genere, gli esperti di beni culturali, ‘interrogassero’ i loro oggetti di studio come lo storico fa con le proprie fonti. Per far ciò – e ottenere le risposte che si cercano – è necessario che costoro abbiano una buona formazione di base, che padroneggino i cosiddetti ‘ferri del mestiere’ proprio al fine di poter interpretare correttamente le proprie fonti; saperle contestualizzare nel loro tempo e nel loro spazio per poter cogliere anche quegli elementi – specie per gli oggetti d’arte – che fungono da discrimine per poter datare un’opera, attribuirla ad un autore oppure ancora distinguere ed individuare eventuali falsi.

Per cercare di comprendere meglio questi passaggi voglio fare riferimento a quanto scrive Erwin Panofsky a proposito della metodologia da adottare quando si ha a che fare con la lettura di oggetti artistici. Scrive Panofsky:

«[…] I segni e le opere umane sono delle testimonianze perché, […] esprimono idee distinte dai processi del far segni o del costruire, […] Queste testimonianze hanno perciò la caratteristica di uscire dalla corrente del tempo, ed è precisamente in questo aspetto che sono studiate dall’umanista, che fondamentalmente è uno storico. […] Lo scienziato ha a che fare con documenti umani, in particolare con le opere dei suoi predecessori. […] i documenti lo interessano non in quanto emergono dalla corrente del tempo, ma in quanto si assorbono in esso. […] Da un punto di vista umanistico le testimonianze umane non invecchiano. […] le discipline umanistiche cercano di trasformare la caotica varietà delle testimonianze umane in quello che potrebbe definirsi il cosmo della cultura. […]»[2].

Nelle pagine che seguono, l’autore per semplificare il metodo d’indagine del nostro umanista, fa l’esempio di un polittico dipinto in una determinata regione europea e di un contratto ad esso relativo – nel quale si descrive cosa debba raffigurare l’opera –. Come si può intuire, sia il polittico che il contratto sono testimonianze del passato, tuttavia verranno analizzate in maniera diversa dallo storico dell’arte e dallo storico puro: per il primo il polittico costituirà fonte primaria (o monumento), mentre il documento sarà fonte secondaria la quale gli offrirà ulteriori riscontri ed elementi di confronto sul monumento stesso. Per lo storico il discorso è la medesima cosa ma a parti invertite.

Andando a vedere in maniera più esaustiva la situazione dal punto di vista del nostro storico dell’arte – o archeologo o professionista di beni culturali in generale – egli non potrà ricavare un quadro completo di informazioni dall’oggetto indagato limitandosi semplicemente alla sua osservazione; dovrà invece avere un bagaglio culturale molto più ampio che gli consenta di leggere l’opera inserita nel suo contesto; dovrà infatti motivare perché in quel polittico le figure sono raffigurate in un determinato modo piuttosto che in un altro; perché i panneggi, ad esempio, sono fatti in un modo invece che un altro; perché le figure o i colori sono realizzati così invece che in un altro modo. Il tutto è la cristallizzazione nell’opera di un determinato modo di pensare, di vivere, di una cultura che è propria di quella società in quel determinato periodo e in quella determinata area geografica, che il pittore – o in generale l’artista – ha, più o meno consapevolmente, inserito nel suo manufatto. E poiché quel manufatto ha attraversato i secoli, il nostro umanista, attraverso la sua indagine, non fa altro che interrogare l’opera e, attraverso le risposte ottenute, consentirle di rivivere e di comunicare a noi il suo messaggio. Egli, attraverso l’interpretazione dell’opera, ricostruisce uno spaccato del nostro passato. Ma non può farlo senza un’adeguata formazione che è anche, tra le altre, storica.

Quale differenza, allora, con uno storico puro? Per quest’ultimo si è detto che le fonti primarie, i ‘monumenti’, sono gli stessi documenti. È dal loro studio e dalla loro interpretazione che lo storico parte allorché vuole studiare un fenomeno. Li raccoglie, li cataloga, li confronta fra loro facendo emergere la verità che essi testimoniano e mettendola poi a confronto con quanto, su quell’argomento, è stato detto in passato – da ciò l’importanza della bibliografia, anche per trovare elementi nuovi rispetto a quanto detto in passato o per evitare inutili ripetizioni  –. In tutto ciò anche gli oggetti materiali possono costituire una fonte per il nostro storico – sia essa iconografica, archeologica ecc. – e anche con queste fonti lo storico deve confrontarsi poiché anche esse, opportunamente integrate con le informazioni documentarie già note al nostro professionista, possono dare ulteriori elementi di riflessione, conferma, smentita sull’argomento che si sta studiando, o comunque arricchirne la conoscenza complessiva.

Mi sia concesso un ulteriore riferimento personale, che uso come esempio, per meglio chiarire questo passaggio. Quando preparai la tesi del master di Roma effettuai uno studio sull’evoluzione dell’abbigliamento militare nel XVI secolo in relazione all’evoluzione dell’arte della guerra. In questo caso analizzai da storico alcuni pezzi di armature studiandone l’evoluzione morfologica e decorativa in relazione al contesto (la rivoluzione militare avvenuta nella prima Età moderna). Partii da un fenomeno teorico – la rivoluzione militare appunto – e le armature prese in esame servirono a studiare quel fenomeno da un altro punto di vista, che sicuramente ha arricchito la sua conoscenza globale. Da ciò ne derivò la seguente affermazione:

«Le armature, con le diverse modifiche formali subite di volta in volta […]  sono state i testimoni più affidabili del processo evolutivo, nel lungo periodo, della military revolution, ne sono state quasi lo strumento di misurazione al pari, o forse più, dei documenti d’archivio essendo state, esse, ‘testimoni oculari’ di questa rivoluzione che ha finito per renderle soggetti coinvolti da essa stessa.»[3].

Ecco dunque il punto della situazione: lo storico, rispetto allo storico dell’arte o all’archeologo, ha una formazione molto più teorica – quasi in maniera esclusiva – e legata al contesto, all’interno del quale si inseriscono i vari fenomeni compresi anche gli oggetti materiali. Anche questi possono essere presi in considerazione dallo storico ma con il puntiglio metodologico, da parte di quest’ultimo, di non voler invadere campi di studio che non gli appartengono e per i quali si rivolgerà a colleghi esperti in quelle discipline istituendo così quel dialogo dal quale verrà fuori la conoscenza, quanto più completa possibile, di quel determinato fenomeno.

Mi sia ancora una volta concesso un altro riferimento a Panofsky per dare maggiore completezza al discorso sulla metodologia adottata per lo studio della storia e dei beni culturali, e per il rapporto fra questi due ambiti. Scrive ancora Panofsky:

«[…] le nostre identificazioni ed interpretazioni dipenderanno dal nostro bagaglio personale, e per questa ragione appunto andranno corrette e controllate mediante la comprensione profonda dei processi storici, la somma totale dei quali si può chiamare tradizione […]»[4].

Nelle pagine precedenti lo stesso Panofsky aveva infatti detto che gli oggetti, e gli eventi, variano al variare delle condizioni storiche e il nostro umanista deve necessariamente familiarizzarsi con esse se vuole giungere ad una corretta e completa interpretazione dell’opera – o delle opere – cui ha deciso di dedicare la propria attenzione. Diversamente sarebbe un po’ come quell’aborigeno australiano, descritto sempre dallo storico dell’arte tedesco, che, trovandosi di fronte ad una rappresentazione dell’Ultima Cena, non ne comprenderebbe il significato[5].

Gli stessi oggetti d’arte, con tutte quelle caratteristiche appena descritte – e anzi proprio per esse – sono considerati beni culturali ai sensi dell’art. 10 D.Lgs 42/2004. Essi sono, come riporta lo stesso codice dei beni culturali, «testimonianza avente valore di civiltà»[6] e per tale motivo sono conservati all’interno di musei, gallerie, parchi archeologici e altri luoghi della cultura volti alla loro conservazione e valorizzazione.

E attraverso la visita ad un museo, una galleria o un qualunque altro luogo della cultura – senza dimenticare i monumenti, non inseriti all’interno di percorsi espositivi, quali ad esempio le varie chiese e cattedrali (siano esse gotiche, normanne, romaniche ecc.), castelli in piccoli centri di provincia, fuori dai grandi circuiti turistici, oppure altri monumenti ancora – noi facciamo inconsapevolmente esperienza di questo nostro passato; facciamo un viaggio nella storia e nella cultura che ci hanno preceduto.

Non dobbiamo guardare asetticamente gli oggetti esposti, bensì meravigliarci ulteriormente pensando che essi sono il risultato materiale, tangibile, di uno sforzo dell’intelletto e dell’agire umano di chi ci ha preceduto secoli fa, di persone che, come noi oggi, hanno gioito, sofferto, affrontato e superato difficoltà… hanno vissuto ed eternato la propria esperienza di vita in quell’oggetto che noi possiamo ammirare oggi.

Mi sia concesso, adesso, un riferimento ad Henri Irénée Marrou, che ritengo utile per completare quanto più possibile questa mia riflessione:

«[…] La conoscenza storica è valida in tanto in quanto è vera; ma ha una verità sempre parziale, che è progressivamente conquistata con il susseguirsi delle ricerche […] Essendo conoscenza dell’uomo attraverso l’uomo, la conoscenza storica è tanto più vera quanto più ricca è l’esperienza umana dello storico, […]»[7].

Che vuol dire tutto questo? La storia è una disciplina umanistica che, come le altre, aiuta l’uomo a conoscere se stesso. Lo fa attraverso un proprio metodo – diverso da quelli delle altre scienze –; tuttavia, proprio perché si basa su testimonianze che non sono state create in funzione di una loro interpretazione da parte degli storici nei secoli a venire, esse saranno parziali rendendo, di conseguenza, parziale il risultato finale. Ciò comporta un necessario sforzo da parte degli storici negli anni e nei secoli a venire. Andando oltre questo mero – e forse un po’ complicato per i più – discorso metodologico, la storia, come altre discipline umanistiche, è una scienza umana che al pari delle altre aiuta l’uomo a scoprire se stesso nella sua totalità. Ma può l’essere umano conoscere completamente se stesso, e tutte le sue potenzialità/capacità una volta per tutte, in modo tale da rendere inutili ricerche e studi futuri su di sé? Può realmente giungere ad una conoscenza completa e definitiva di sé che non preveda approfondimenti futuri? Personalmente ritengo di no in quanto tutto ciò che l’uomo produce – dunque anche le scienze – sono il risultato dell’elaborazione della mente umana, della capacità creativa del genere umano, la cui conoscenza non potrà mai avere completamente fine, proprio perché infinite sono le capacità umane di creare e ricreare la propria esistenza in questo mondo[8].

Ne consegue che la storia, per tanto tempo considerata disciplina principale degli studi umanistici – con archeologia, storia dell’arte, antropologia, ecc. considerate discipline ausiliarie – viene così ‘ridimensionata’. Ma non può divenire, essa stessa, ausiliaria delle altre. No. Non c’è, né deve esserci un rapporto gerarchico tra discipline, poiché tutte riguardano diversi aspetti della vita umana; tutte studiano un aspetto specifico dell’essere umano, da una prospettiva diversa.

Storia, archeologia, storia dell’arte, antropologia, geografia, psicologia ecc. sono tutte discipline scientifiche che, collaborando tra loro in un rapporto alla pari – complementare appunto –, consentono all’uomo quel processo di conoscenza di sé. Questo processo, applicato ai beni culturali e agli oggetti d’arte in generale, dà anche all’uomo la possibilità di conoscere meglio quell’oggetto stesso e tutto l’universo che gli sta dietro e dal quale esso deriva. Da ciò ne consegue l’obbligo morale di una tutela e valorizzazione di quell’oggetto stesso.

Vorrei allora riflettere – per concludere – sul significato dei termini ‘conoscenza’, ‘tutela’ e ‘valorizzazione’.

Ciascuno di questi principi non esclude gli altri, bensì se ne fa complementare. Non può esserci tutela e valorizzazione senza la conoscenza. Tutelare, infatti, non vuol dire porre un oggetto artistico all’interno di una bacheca di un museo affinché non venga toccato da nessuno e possa così preservarsi per le generazioni future. Questa è solo una definizione parziale del concetto di tutela. In tal senso, per esempio, quell’oggetto andrà tutelato anche attraverso interventi di restauro oppure attraverso la sua catalogazione in specifici inventari delle istituzioni museali o in più semplici inventari di beni mobili (es. quelli di una chiesa). Se un bene è inventariato, infatti, sarà molto più difficile rubarlo, o se rubato, si darà un ausilio in più alle forze dell’ordine per il suo recupero, in quanto si forniranno loro quante più informazioni possibili sull’oggetto rubato (fotografia, descrizione, misure, segni particolari, ecc.)[9].

Ma se il nostro bene da tutelare non fosse un oggetto materiale, bensì una tradizione, una festa, un’espressione simbolo di una cultura locale? Come provvedere alla sua tutela se non avviando una serie di procedure volte alla sua conoscenza al fine, magari, di preservarne la memoria? Inserire quel bene immateriale all’interno di un circuito di iniziative volte al suo ‘mantenimento in vita’ presso la comunità; circuito che, in sintesi, promuova la conoscenza di quel bene.

Di contro, come si fa a tutelare e valorizzare un bene se non lo si conosce? Conoscere un bene culturale, o comunque un oggetto d’arte, significa mettere in pratica tutto quel procedimento che si è descritto nelle righe precedenti. Inoltre la stessa conoscenza implica, almeno da un punto di vista morale, tutte quelle attività di tutela e valorizzazione che, a loro volta, possono implementare la conoscenza stessa di quell’oggetto.

Conoscenza, tutela e valorizzazione sono dunque tre concetti complementari fra di loro che potrebbero essere considerati come la doppia elica del DNA umano. Solamente dalla loro visione unitaria può derivare una conoscenza completa di noi, del nostro passato, della nostra cultura, in un processo di arricchimento di quest’ultima sempre in divenire.

Bibliografia:

Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42: Codice dei beni culturali e del paesaggio.

H. I. Marrou, La conoscenza storica, il Mulino, Bologna 1997.

E. Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 2009.

Id., Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 2010.

E. Riccobene, L’evoluzione del costume militare nel XVI secolo attraverso alcuni esempi della collezione di Armeria Europea del Museo Stibbert di Firenze, Tesi di Master in ‘Esperti nella tutela del patrimonio culturale’ presso l’Università ‘Roma Tre’, A.A. 2015-16, Rel. Prof. R. Franci.


[1] Come brevi esempi di ciò rimando all’impero romano che altro non fu se non il primo esempio di globalizzazione della storia, divenuto tale attraverso lo scambio – a volte pacifico, altre violento – tra le varie civiltà che lo hanno abitato; oppure ancora agli scambi e alle relazioni avvenuti tra i popoli con la scoperta, e relativa conquista, del continente americano.

[2] E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 2010, p. 9.

[3] E. Riccobene, L’evoluzione del costume militare nel XVI secolo attraverso alcuni esempi della collezione di Armeria Europea del Museo Stibbert di Firenze, Tesi di Master in ‘Esperti nella tutela del patrimonio culturale’ presso l’Università ‘Roma Tre’, A.A. 2015-16, Rel. Prof. R. Franci, p. 110.

[4] E. Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 2009, p. 19.

[5] Ibidem.

[6] Cfr. D.Lgs. 42/2004, art. 2, comma 2.

[7] H. I Marrou, La conoscenza storica, il Mulino, Bologna 1997, p. XXVII.

[8] Volendo fare il ragionamento opposto, si potrebbe tranquillamente affermare che dell’uomo, in secoli e secoli della sua esistenza sulla Terra, si conosce tutto e pertanto non c’è più bisogno di andare avanti con gli studi; essi non avrebbero più senso. Ma se così fosse, allora perché la storia, l’archeologia, la storia dell’arte, la filosofia, la sociologia, la medicina e altre scienze ancora – siano esse umanistiche o più propriamente tecnico-scientifiche – sono andate avanti progredendo nel corso dei secoli?

[9] Voglio anche ricordare che sul sito dell’Arma dei Carabinieri, nella sezione relativa al Comando CC TPC, vi è un link che rimanda al cosiddetto ‘Object ID’ ossia il modello per l’inventariazione dei beni attraverso il quale si possono inserire, per ciascun oggetto, fotografia, misure, descrizione dell’oggetto stesso, segni particolarmente degni di nota, età dell’oggetto o periodo di creazione, ecc. Tutti elementi che costituiranno un ausilio in più per il reperimento dell’opera e, contestualmente, un deterrente – almeno in linea teorica – per eventuali azioni di alterazione/falsificazione della stessa.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Emanuele Riccobene

Scritto in data: 26 gennaio 2021

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Pubblicato da Emanuele Riccobene

Storico. Ha conseguito il master I° livello in "Esperti nella tutela del patrimonio culturale" presso l'Università "Roma Tre". Ha all'attivo pubblicazioni sulla storia politica, militare, economica e sociale della Sicilia. Sta inventariando il patrimonio culturale immateriale del Comune di Delia (CL).