Vero o falso: questo è il dilemma. Storia ed esempi di falsi “primitivi”

Foto di StockSnap da Pixabay

Oggi ci occuperemo di un aspetto molto peculiare che tocca la tematica di tutela del patrimonio culturale: il fenomeno della falsificazione delle opere d’arte. A fronte della vastità dell’argomento, il nostro raggio di interesse si indirizzerà in modo particolare verso una specifica tipologia di prodotti artistici, cui la critica ha dato il nome di “primitivi” o, per estensione, di arte “primitiva”.

Con questo termine, ideato per la prima volta nell’Ottocento, si indicavano manufatti – dalla pittura alla miniatura –, databili tra il Duecento e la prima metà del Cinquecento, sui quali erano dipinti soggetti cristiani, nei quali venivano percepite una purezza ed una incorruzione del tutto assenti nella produzione artistica corrente; tuttavia, onde evitare equivoci, si sottolinea che l’aggettivo “primitivo” poteva essere anche attribuito ad un’opera la cui rappresentazione non necessariamente vedeva coinvolto un soggetto sacro come, ad esempio, poteva essere il ritratto di una giovane nobildonna di un artista come il Pinturicchio.

Il frontespizio de “Le Vite” di Giorgio Vasari da una copia della seconda edizione (foto tratta da wikipedia.org)

L’apprezzamento verso quest’arte iniziò a muovere i primi passi già al tempo di Giorgio Vasari: nelle sue famose due edizioni (1550 e 1568) di Le Vite de più eccellenti pittori e scultori et architettori, lo storico aretino, pur se attraverso un’ottica toscanocentrica, esaltava la maniera di autori “primitivi” come Cimabue e Giotto e, se a noi contemporanei poco stupisce tutto ciò, a quel tempo in realtà il fenomeno fu di portata rivoluzionaria; infatti, come sappiamo, l’Umanesimo ed il Rinascimento sembravano aver definitivamente gettato un’ombra buia su quei brillanti pennelli del Medioevo, imitando la grande classicità del passato.

Tornando all’Ottocento, il generale apprezzamento verso gli artisti primitivi generò un effetto collaterale, quello cioè della loro falsificazione. Soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo, accadde che l’arte primitiva, venendo riconosciuta e quindi ammirata, iniziò ad essere voluta dai collezionisti d’arte; perciò, il mercato artistico inizialmente vendette molti manufatti autentici finché, come spesso accade, la richiesta superò l’offerta. In questo spartiacque, allora, si infilò silenziosamente lo zampino del falsario.
La falsificazione di opere d’arte primitive si verificò, come detto, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento per continuare, imperterrita, fino alla prima metà del secolo successivo e trovando terreno fertile un po’ in tutta Europa. Il nostro Paese, perciò, non fu esente dal fenomeno, crescendo esorbitantemente nei primi trent’anni del Novecento. In modo particolare, si vuole segnalare la città di Siena come epicentro della falsificazione di opere d’arte primitiva; il motivo di una tale – e prolifica – produzione di falsi primitivi si spiega per la considerevole presenza di botteghe artigianali in cui, da generazioni, si tradivano le antiche tecniche artistiche che Cennino Cennini, celebre per un suo trattato in materia, scrisse una sorta di prontuario a chi si fosse approcciato alla produzione di opere d’arte. La situazione era più o meno la seguente: anche il più giovane dei garzoni, che si fosse trovato ad osservare il capo-bottega mentre puliva la superficie di un’antica tavola dipinta dallo sporco, prima o poi si sarebbe impratichito al punto tale che, dal semplice riparo, sarebbe stato perfettamente in grado di creare una pittura su tavola come si faceva nel Medioevo.
Tra i più noti falsari del tempo si vuole ricordare il più famoso, Icilio Federico Joni, il quale con una sua creazione falsa, spacciata per un noto pittore, riuscì ad ingannare un bravissimo storico dell’arte come Bernard Berenson.

Tornando alla storia della falsificazione di opere primitive, il fenomeno sembrerebbe essersi arrestato a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Trovare i perché è un’impresa non facile se pensiamo alla capziosità della natura dell’argomento che si sta trattando; tuttavia, è plausibile pensare che quest’arte iniziò a non essere più considerata dal collezionista – e, dunque, dal mercato d’arte fino ad arrivare al falsario – dal punto di vista del proprio gusto, che era mutato, rivolgendo le preferenze su altri stili. L’ipotesi potrebbe essere confermata se si pensa agli Stati Uniti in cui, già a partire dagli anni Venti del secolo, l’apprezzamento dell’arte dei primitivi fu soppiantata da quella degli Impressionisti, le cui creazioni inondarono l’allora mercato artistico.

Ma ora vediamo insieme le varie modalità di falsificazione di opere d’arte primitive, riportando per ciascuna un esempio, con la premessa che questa disamina non voglia essere esaustiva, ma dare al lettore l’idea di quanto, talvolta, il filo del riconoscimento tra vero e falso sia spesso così sottile, silenzioso, ingannevole.

Si vuole iniziare a presentare alcune delle tipologie di falsificazione di falsi primitivi riportando le tre distinzioni fatte dallo storico dell’arte Federico Zeri in un suo illuminante scritto dal titolo Il Falsario in Calcinaccio: egli parlava di falso riferendosi a quell’oggetto il cui creatore, quindi il falsario, si è ispirato a più opere d’arte autentiche, prendendo da ciascuna vari elementi ed assemblandoli insieme.

Facciamo perciò l’esempio di un falso che ha particolarmente colpito la nostra attenzione: in una collezione svizzera si trova una tavola con la Madonna con il Bambino, per la quale è stata avanzata l’ipotesi di falso perché essa sembrerebbe essere stata realizzata fondendo insieme pezzi presi da due opere duecentesche, la Madonna in trono ed angeli conservata presso la chiesa dei Santi Salvatore e Cirino a Badia ad Isola (SI) e una Vergine con il Bambino in collezione privata. L’unione di elementi tratti sia dall’una che dall’altra opera ha dato vita ad un risultato piuttosto buffo se si nota la strana posizione del braccio del Bambino che sbuca, benedicendo anche, al di sotto del velo di Maria! Una particolarità simile, mai registrata prima, è probabilmente frutto di una conoscenza poco profonda dell’iconografia cristiana.

Zeri continua con la seconda modalità di falsificazione: il falso “nello stile di” è quel genere di creazione fraudolenta che il falsario ha realizzato “ispirandosi” alla maniera di un determinato artista, o bottega, o di una determinata epoca storica. Quindi, si pensino agli innumerevoli ritratti di uomini e donne che il Rinascimento ci ha donato e a come un anonimo falsario, a cui si è dato – e non casualmente – il nome di Falsario dei Rampolli Rinascimentali, si sia pedissequamente “ispirato” ad essi creandone una serie.

Segue la terza ed ultima classificazione chiamata “creativa”. Con essa, Zeri indicava il falso il cui artefice, pur essendosi ispirato ad un artista o periodo artistico, ha infuso inconsapevolmente anche elementi del suo tempo presente. Ci spieghiamo accennando al modus operandi di un falsario a cui Zeri dette il soprannome di Falsario in Calcinaccio, il quale realizzò un numero consistente di intonaci – da qui il soprannome – con sopra ritratti uomini e donne in vesti eleganti, apparentemente databili nel XV o XVI secolo. L’oculato Zeri riuscì ad avanzare perciò l’ipotesi di falso notando elementi inspiegabili se calati nell’arte del Quattro o Cinquecento, dagli occhi dei personaggi dall’espressione eccessivamente languida ai tagli fotografici delle scene (si pensi a quest’ultimo particolare: un artista del XV-XVI secolo come avrebbe potuto conoscere la fotografia inventata secoli più tardi?).

Continuiamo questa rassegna dei falsi primitivi trattando del sistema apparentemente più scontato: quella della copia. Come sempre, portiamo un esempio: nel corso del secondo conflitto mondiale, il Crocifisso duecentesco di San Michele in Borgo, oggi conservato alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, venne ricoverato in un magazzino in attesa della fine della guerra. Approfittando di questa situazione di stallo, al posto della originaria cimasa – cioè della parte più alta della croce – ci si accorse che essa era stata sostituita con una sua perfetta copia. Si scoprì che, a causa della complicità del parroco, il pezzo autentico era stato venduto ad un antiquario milanese, ma alla fine, dopo la confessione dello stesso sacerdote, la cimasa originaria venne recuperata. Confrontando l’originale con il falso, non si può non rimanere colpiti da quanto siano simili! In realtà, la situazione sarebbe ancora più complessa se si aggiunge che esiste un’altra copia della stessa cimasa del Crocifisso bolognese, anch’essa molto simile all’originale, comparsa nel secolo scorso in una nota casa d’aste!!

La lista sarebbe ancora lunga, ma vogliamo concludere questo breve contributo parlandovi di una modalità di falsificazione molto particolare. La sua peculiarità deriva dal fatto che essa nasceva sì nell’ambito del restauro – un restauro che, ad inizio del XX secolo, ancora era privo di corsi e di figure professionali, quindi aperto alle interpretazioni più varie – ma che, a causa della sua “incisività”, si è poi trasformata in qualcos’altro. Spiegare di cosa si stia parlando non è così facile, ma forse con l’esempio che stiamo per proporvi sarà più chiaro. Si osservi questa Madonna col Bambino e la si confronti con uno scatto realizzato a seguito della radicale pittura cui venne sottoposta dopo essere arrivata in America. Grazie ad uno studioso, si è così riusciti ad ipotizzare che la tavola potrebbe aver subito quest’incredibile metamorfosi quando, prima di arrivare negli USA, venne immessa nel mercato antiquario dove qualcuno, per renderla vendibile, quasi la dipinse come nuova. A suo modo, anche questo esempio è un caso di falsificazione perché il confronto fotografico non lascia molti dubbi, credendo che ci sia stata proprio una intenzione ingannevole.

Bibliografia essenziale:

  • W. Angelelli, Brandi, il restauro antiquario e il falso, in La teoria del restauro nel Novecento da Riegl a Brandi. Atti del Convegno Internazionale, Viterbo 12-15 novembre 2003, a cura di M. Andaloro, Firenze 2006, pp. 239-255.
  • A. G. De Marchi, Il vero, il falso e il dubbio, in Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande, 6 (1999), pp. 46-52.
  • A. G. De Marchi, Falsi primitivi. Prospettive critiche e metodi di esecuzione, Torino 2001.
  • G. Previtali, La fortuna dei primitivi, Torino 1964.
  • F. Zeri, Il falsario in Calcinaccio, in Quaderni di Emblema 1. Diari di Lavoro, Bergamo 1971, pp. 81-91.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Giulia Abbatiello

Scritto in data: 20 febbraio 2022

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

Le immagini, delle quali è indicata la fonte, sono inserite per puro scopo illustrativo e senza alcun fine di lucro.

La nostra attività sul blog e sui social viene effettuata volontariamente e gratuitamente. Se vuoi sostenerci, puoi fare una donazione. Anche un piccolo gesto per noi è importante.

Ti ringraziamo in anticipo!

Admin. Cristina Cumbo e #LaTPC team

Puoi inquadrare il QR-code tramite l’app di PayPal, oppure cliccare su:

Sostieni #LaTPC blog

About Giulia Abbatiello 31 Articles
Storica dell'arte, Bibliotecaria e abilitata all'insegnamento della Storia dell'Arte (classe A-54) nelle scuole secondarie di secondo grado. Si laurea nel 2020 in Storia dell'Arte con 110 e lode all’Università degli Studi di Roma "La Sapienza". L'anno successivo consegue il diploma di Master di II livello in “Strumenti scientifici di supporto alla conoscenza e alla tutela del patrimonio culturale” presso l'Università degli Studi di “Roma Tre”. Diplomatasi presso la Scuola Vaticana di Biblioteconomia (2023), ha preso parte al al progetto di catalogazione del libro antico del Fondo "Antichi e Rari" della Biblioteca della Pontificia Università Gregoriana e collabora attualmente al progetto di catalogazione dei manoscritti miniati del Fondo "Urbinate" nell’ambito del “Censimento e catalogazione dei manoscritti miniati della Biblioteca Apostolica Vaticana”, sostenuto dall’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e dall’Università degli Studi della Tuscia.