Archeologi e scavi clandestini: il dovere della denuncia

Il 29 aprile scorso si è svolto il dibattito online “Do Archaeologist have an ethical obligation to report looting?” organizzato dalla Antiquities Coalition.

La discussione ha preso avvio da un articolo firmato dalla dott.ssa B. A. Bowman Balestrieri (Ph.D.), liberamente consultabile sul sito stesso della Antiquities Coalition (link).

“Gli archeologi hanno il dovere etico di denunciare uno scavo clandestino o, comunque, attività sospette?”. Questo è il quesito principale che, a prima vista, può anche sorprendere. Molti di noi archeologi non si sono mai posti la domanda, semplicemente perché denunciare uno scavo clandestino non rappresenta una scelta, ma un dovere insito nel lavoro stesso dell’archeologo. Si tratta di segnalare alle autorità chi distrugge il contesto, chi opera in condizioni illecite demolendo così la storia.

Nel suo studio, la dott.ssa Bowman Balestrieri (Ph.D.) ha ben analizzato il fenomeno che, a differenza di quel che potrebbe sembrare, ha come oggetto principale proprio la figura dell’archeologo, il suo comportamento.

Dai dati che emergono, negli U.S.A. il 62% degli archeologi che lavora sul campo denuncia il fatto alle forze dell’ordine oppure alle autorità ministeriali; il 14% ne discute con i membri del progetto archeologico con cui collaborano al fine di prendere una decisione in merito all’intervento più idoneo da adottare; il 24% degli archeologi, ovvero una porzione notevole, decide di non agire, “chiudendo un occhio”.

Quali sono le motivazioni di questo comportamento? Sembra che molti di essi vedano i tombaroli come vittime. Nella scala gerarchica della criminalità, infatti, il tombarolo è solo la prima pedina, mossa a piacimento da committenti, spesso spietati collezionisti, e intermediari. Molti di loro, soprattutto nelle zone di crisi internazionale o comunque economicamente deboli, sono persone povere.

Pur comprendendo la situazione, quale diritto ha l’archeologo per elevarsi a giudice e prendere una simile decisione? La denuncia dovrebbe, a mio personale avviso, essere effettuata per l’atto in sé; starà poi alle autorità competenti valutare la questione sotto altri punti di vista.

La passività che caratterizza il comportamento dell’archeologo non fa altro che incoraggiare gli scavi clandestini e, quindi, l’impoverimento culturale di una determinata area. D’altra parte, alcuni paesi necessitano anche di un inasprimento delle pene e di leggi più severe per combattere questa pratica e considerarla reato.

E ancora: alcuni archeologi fanno parte della stessa catena criminale, essendo d’accordo nell’indicare i siti migliori in cui poter effettuare scavi illeciti. Altri non prendono posizione, preferendo rimanerne fuori, svolgendo il proprio lavoro e facendo finta di non aver visto nulla, a volte per paura di ritorsioni.

Dal dibattito e dallo studio della dott.ssa Bowman Balestrieri se ne deducono dati assolutamente non confortanti: la condizione stessa di archeologo non basta a far sì che quest’ultimo lo sia davvero.

Come commentava il magistrato Luigi Marini nel corso del dibattito, l’archeologo, per sua stessa definizione, deve proteggere la storia che sarà sua premura, con i dovuti mezzi a sua disposizione, ricostruire; quando egli chiude un occhio davanti a uno scavo clandestino, di fatto, aiuta una catena criminale che parte dal basso per arrivare ai grandi “vertici”.

Un’ultima proposta proviene dal dott. Ramadan Hussein: si dovrebbe pensare a un meccanismo di denuncia anonimo – anche via web – in modo da poter tutelare la figura dell’archeologo, o eventualmente, del cittadino che decide di porre la questione davanti all’autorità giudiziaria.

Cosa è emerso? Un quadro preoccupante per quanto riguarda la coscienza del singolo: essere archeologo è diverso dal possedere il titolo di archeologo. Un archeologo ama la storia e tutela i beni culturali senza aver bisogno di leggi e della “minaccia” delle pene conseguenti; d’altra parte, per combattere il fenomeno degli scavi clandestini, a volte non bastano i serrati controlli delle forze dell’ordine, né le denunce degli addetti ai lavori, ma occorrono sanzioni severe che demoralizzino i tombaroli ad agire nonostante l’eterna richiesta di antichità e una consapevolezza collettiva riguardo l’importanza dello stesso patrimonio culturale.

In Italia cosa è previsto? Un brevissimo excursus sulla normativa ci riporterà alla mente che, in primis, tutto ciò che si trova nel sottosuolo appartiene di diritto allo Stato sin dal momento della scoperta (art. 91 del Codice per i Beni Culturali e del Paesaggio), così come i beni rinvenuti fortuitamente nel sottosuolo, ad esempio durante lavori di demolizione o edificazione (art. 826 comma 2 CC).

Secondo l’art. 175 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, comma 1, chiunque esegua ricerche archeologiche non consentite è punito con l’arresto fino a 1 anno e un’ammenda da 310 a 3.099 euro.

Il possesso illecito di beni archeologici, esito di scavi clandestini, è reato (art.176 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) per il quale è prevista la reclusione fino a 3 anni con una multa da euro 31 a 516,50; chi li acquista, risponde invece del reato di ricettazione (art. 648 CP).

La legge Italiana prevede una pena anche per chi, avendo ottenuto la concessione di ricerca, si impossessi dei beni archeologici rinvenuti. Ancora l’art. 176, comma 2, è chiaro in merito: reclusione da 1 a 6 anni e multa da 103 a 1.003 euro.

L’Italia è uno dei paesi più attenti verso la tutela del patrimonio culturale, eppure le pene previste non sembrano ancora sufficienti ad estirpare la “tradizione” degli scavi clandestini che, soprattutto in determinate aree, proseguono a dilaniare il sottosuolo.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Cristina Cumbo

Scritto in data: 17 maggio 2020

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

Aggiornamento del 12.09.2020: commento alla discussione del magistrato Luigi Marini: https://thinktank.theantiquitiescoalition.org/wp-content/uploads/2020/09/AC-Commentary-1.pdf

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Pubblicato da Cristina Cumbo

Archeologa e ricercatrice; Dottore di ricerca in Archeologia Cristiana; amministratrice, fondatrice e responsabile del blog #LaTPC, nonché della pagina Facebook "La Tutela del Patrimonio Culturale". Ha frequentato il primo corso di perfezionamento in tutela del patrimonio culturale in collaborazione con il Comando Carabinieri TPC presso l'Università di Roma Tre (2013) e il Master annuale di II livello in “Strumenti scientifici di supporto alla conoscenza e alla tutela del patrimonio culturale” attivo presso il medesimo ateneo (2019). Dal mese di gennaio 2022 al marzo 2024 ha collaborato con l'Institutum Carmelitanum di Roma conducendo ricerche su alcune chiese Carmelitane demolite e ricostruendone la storia. Attualmente è assegnista di ricerca presso l'ISPC - CNR, dove si occupa di analizzare storicamente il fenomeno del vandalismo sul patrimonio naturale e culturale in Italia per la redazione di linee guida funzionali alla mitigazione del rischio.