Il furto archeologico tra analisi critica e implicazioni sul piano pre-processuale rispetto al furto previsto dal Codice Penale

L’intervento di questo mese analizzerà il c.d. «furto archeologico», fattispecie penale che viene rubricata dal Codice dei beni culturali e paesaggistici all’art. 176 quale «Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato».

Analizzeremo, anzitutto, la fattispecie di furto prevista dal Codice Penale, facendo un breve cenno alle sue aggravanti; vedremo, poi, quali sono gli elementi di specificità rispetto a quella prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché quali le diverse conseguenze cui si espone l’autore dei rispettivi reati nel caso venga colto nella flagranza del reato.

Il delitto di furto è punito all’art. 624 e, con le sue aggravanti, all’art. 625 del codice penale.

Riportiamo il testo dell’art. 624, c.p.: «Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516».

Se scomponiamo la norma, ci accorgiamo che vi è una componente oggettiva costituita da una condotta appropriativa della cosa mobile mediante sottrazione dell’autore del reato e una componente soggettiva costituita dal dolo, ossia dalla coscienza e volontà di appropriarsi della cosa mobile al fine di trarne profitto per sé o per altri.

In termini più concreti: il ladro, con la sua condotta (azione), prima sottrae la cosa mobile al legittimo detentore e poi se ne appropria, si comporta cioè rispetto ad essa come se fosse il proprietario (la vende, per esempio; e da qui il reato di ricettazione per chi l’acquista).

Il soggetto passivo del reato è il semplice detentore della cosa, una situazione giuridica più attenuata rispetto a quella del proprietario o del possessore, a ragione del fatto che l’ordinamento ha preferito assegnare la sua tutela penale al patrimonio del soggetto, prescindendo dalla titolarità del diritto da parte di quest’ultimo.

Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie in esame è, infatti, il patrimonio della persona e non quest’ultima.

Una ulteriore precisazione è d’obbligo.

Nella visione penalistica per patrimonio è da intendersi tanto le cose che abbiano un valore economico, cioè esprimibile in termini monetari, quanto quelle che abbiano un valore di affezione.

Facciamo un esempio.

Nessun dubbio se Tizio ruba l’auto lasciata in sosta da Caio. La vettura, vecchia o nuova che sia, incarna in sé un valore economico che può essere quantificato in euro.

Ma cosa succede se Tizio ruba una ciocca di capelli appartenuti alla moglie defunta di Caio?

Può essere la ciocca di capelli espressa in moneta? Certo che no. Ma per Caio quei capelli rappresentano la storia della sua esistenza, tutto l’amore e l’affetto vissuto assieme alla sua cara moglie. Quindi, una tale situazione deve essere tutelata sul piano penale, e dunque sicuramente Tizio sarà chiamato a rispondere del reato perché nell’esempio appena fatto i capelli della defunta moglie di Caio possono (e devono) essere ricompresi nel suo patrimonio inteso in senso affettivo.

Il significato in senso penale di patrimonio e il requisito della «altruità» rappresentano elementi importanti nel sistema penalistico e costituiscono, inoltre, fattori peculiari per ciò che riguarda il reato di impossessamento illecito dei beni culturali, come vedremo tra poco.

È necessario un brevissimo richiamo alle più importanti aggravanti del reato di furto, previste all’art. 625 del codice penale, per alcune considerazioni che si faranno in ordine ai beni culturali.

Va detto anzitutto che le circostanze previste all’art. 625 del codice penale sono «aggravanti speciali», così dette perché trovano applicazione soltanto con riguardo al furto e non a tutti i reati, e la loro ricorrenza comporta un aumento di pena nonché altre implicazioni sul piano pre-processuale, che vedremo.

Nel rimandare alla lettura dell’art. 625 del codice penale per una più dettagliata elencazione, si ritiene tuttavia di dover citare quelle circostanze aggravanti che, a nostro parere, maggiormente possono mettersi in relazione con il reato di impossessamento illecito di beni culturali, e tra di esse segnaliamo:

… l’aver commesso il fatto:

  1. con violenza sulle cose (Tizio per rubare la macchina di Caio, rompe il finestrino);
  2. con indosso armi (senza usarle: se usate, il reato si trasforma in rapina);
  3. in numero di tre o più persone, o anche da una sola ma travisata …;
  4. su cose esposte alla pubblica fede …

Pensate che se ricorrono due o più circostanze aggravanti, è prevista la pena della reclusione da tre a dieci anni e della multa da euro 206 a euro 1.549.

Le implicazioni sul piano pre-processuale, cui prima si è fatto riferimento, consistono nel fatto che se il furto è commesso con violenza sulle cose – l’esempio di Tizio che ruba la macchina rompendone il finestrino è paradigmatico – l’autore deve essere tratto in arresto dalla polizia giudiziaria, se trovato nella flagranza del reato, perché lo impone l’art. 380 del codice di procedura penale.

Non la stessa sorte spetta, per esempio, al «tombarolo», e ne vedremo i motivi.   

Fatta questa rapida, e sicuramente poco esauriente analisi del reato di furto, passiamo ora in rassegna la fattispecie del c.d. «furto archeologico».

Ne riportiamo il testo sancito all’art. 176 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004 «Codice dei beni culturali e paesaggistici»: «Chiunque si impossessa di beni culturali indicati nell’articolo 10 appartenenti allo Stato ai sensi dell’articolo 91 è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 31 a euro 516, 50».

Anzitutto occorre dire che la noma in esame è fattispecie penale speciale, ossia essa trova obbligatoria, specifica ed esclusiva applicazione in caso di impossessamento di beni culturali appartenenti allo Stato.

I latini, per rendere meglio tale assunto, facevano ricorso ad un brocardo: «legis specialis derogat generalis». Tradotto significa che la norma speciale costituisce eccezione a quella generale.

In termini concreti significa che il giudice, in presenza di una materia che risulta specificamente disciplinata da una norma, è tenuto ad applicare quest’ultima, ignorando l’esistenza di altre.

Ma a quali beni culturali si riferisce la norma?

Essa si riferisce sostanzialmente ai beni culturali di natura archeologica che, in quanto tali, appartengono ope legis allo Stato.

Infatti essa fa riferimento ai beni culturali indicati all’art. 10, ma che appartengono di diritto allo Stato per il loro trovarsi in un determinato luogo: nel sottosuolo o sui fondali marini.

Non a caso la stessa disposizione richiama l’art. 91 del Codice, che così recita: «Le cose indicate nell’articolo 10, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato».

Rispetto all’ipotesi di furto prevista nel codice penale, saltano agli occhi già alcune peculiari differenze sia sul piano oggettivo, sia su quello soggettivo.

Infatti, perché possa dirsi sussistente il reato di impossessamento illecito di beni culturali occorre: sul piano oggettivo, che vi sia una condotta appropriativa di beni culturali sostanzialmente di natura archeologica e per ciò stesso appartenenti allo Stato (il tombarolo, rispetto al reperto trafugato, si comporta come se fosse il proprietario: lo aliena); sul piano soggettivo, che il soggetto abbia agito con dolo generico, cioè con la mera coscienza e la volontà di impossessarsi di un reperto archeologico, e non con dolo specifico. In altri termini, ai fini della sussistenza del delitto in esame, non è richiesto che il soggetto abbia agito in vista di un profitto per sé o per altri.

Il requisito della sottrazione della cosa, ontologicamente richiesto per il furto previsto nel codice penale, non è invece necessario per il reato di impossessamento illecito di beni culturali, in quanto esso è insito nella condotta appropriativa. Al legislatore non interessa attraverso quali azioni (di sottrazione o meno) il soggetto si impossessa del bene; ciò che rileva sul piano penale è l’azione di impossessamento della cosa, di disporre cioè di essa, di farne ciò che più si desidera.

Potremmo dire che ci troviamo di fronte a quello che la dottrina ha definito essere un reato a forma libera: non importa come viene realizzato; importa che sia realizzato.

Tutto ciò ha delle forti conseguenze sul piano della tutela, risultandone maggiormente adeguata.

Se infatti il legislatore avesse voluto ancorare la realizzazione del reato di impossessamento ad una necessaria condotta sottrattiva, sarebbe stato alquanto difficoltoso provarne la sussistenza e conseguentemente il responsabile sarebbe andato incontro ad assoluzione sicura, privando di fatto di tutela il nostro patrimonio archeologico.

Le medesime considerazioni devono farsi valere con riguardo al dolo specifico richiesto nel reato di furto.

Ne consegue, quindi, che il reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato così prevista dal Codice offre una maggiore tutela penale al patrimonio archeologico, non dovendosi dimostrare talune peculiarità che sono invece richieste per il reato di furto.

Tuttavia, a fronte di una più adeguata tutela assegnata in termini normativi, si registra una affievolita attenzione sul piano pre-processuale.

La fattispecie di cui all’art. 176 del Codice, infatti, non consente alla polizia giudiziaria di procedere né in termini obbligatori né facoltativi all’arresto del responsabile colto nella flagranza di reato e ciò in quanto gli artt. 380 e 381 del codice di procedura penale, rispettivamente le norme che disciplinano l’arresto obbligatorio e facoltativo eseguibile nella flagranza di reato della polizia giudiziaria, escludono l’adozione di tali misure «pre-custodiali» in ragione delle pene edittali da esse richieste.

L’art. 380 c.p.p. obbliga la polizia giudiziaria di arrestare chiunque venga colto nella flagranza di un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni (e nel massimo a venti), oppure è colto nella flagranza di una serie di delitti tra i quali vi rientra il furto aggravato per averlo commesso con violenza sulle cose.

L’art. 381 c.p.p. assegna la facoltà alla polizia giudiziaria di arrestare chiunque venga colto nella flagranza di un delitto per il quale la legge stabilisce la pena reclusione superiore nel massimo a tre anni.

Il delitto di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, di cui all’art. 176 del Codice, è punito con la reclusione fino a tre anni e a sei nel caso, assai remoto nella prassi, in cui il fatto sia commesso da chi abbia ottenuto la concessione di ricerca, e il giudice non può applicare altra norma al di fuori della presente perché, come si è detto, costituisce norma speciale.

Non fa parte della nostra cultura affermare un’idea giustizionalista della legge, ma non si può non considerare il fatto che, attraverso interventi normativi più incisivi, il fenomeno dei furti archeologici possa incontrare una forma di deterrenza, che assicuri una più immediata tutela del nostro patrimonio culturale. 

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Leonardo Miucci

Scritto in data: 23 aprile 2021

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

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Pubblicato da Leonardo Miucci

Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, precedentemente in servizio presso la Sezione TPC di Siracusa