La ricettazione di beni archeologici e la controversa questione del loro possesso

Riprendiamo con questo intervento la questione legata alla ricettazione di beni culturali per vedere cosa accade nella realtà quando una persona viene trovata in possesso di reperti archeologici.

La criticità legata a questa tipologia di beni culturali è data dal fatto che a volte il dibattito che si crea attorno ad essi depone sia a favore sia a sfavore della legittimità del loro possesso in mano a soggetti privati, dimenticando spesso che il quadro normativo, attualmente vigente, e con esso la giurisprudenza di merito e di legittimità, è lapalissiana.

Come è ormai consuetudine del Blog quando si parla di normativa a tutela dei beni culturali, poniamo il seguente caso di scuola.

Accade che durante una perquisizione domiciliare Tizio viene trovato in possesso di alcune «ghiande missile», monete antiche e una serie rilevante di reperti fittili che egli riferisce, in un primo momento, di aver trovato in un terreno non meglio indicato e, subito dopo, di averli ricevuti in eredità da suo padre, ormai defunto. I reperti, sottoposti a sequestro penale, verranno poi esaminati da un archeologo che ne certificherà l’autenticità, riconducendone la datazione all’età greca (varie datazioni).

Il soggetto, tratto in giudizio dinanzi al Tribunale, dovrà rispondere del reato di ricettazione di beni culturali, in violazione dell’art. 518-quater del codice penale.

La norma in esame così recita:

«Fuori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta beni culturali provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e con la multa da euro 1.032 a euro 15.000».

Si omettono gli altri due commi di cui è costituita la norma, dove sono esplicitate le aggravanti e gli elementi legati alla responsabilità in caso di mancanza di condizione di procedibilità, perché irrilevanti al caso che qui stiamo analizzando.

Dunque, perché si possa rispondere di ricettazione di beni culturali è necessario che concorrano, sotto il profilo oggettivo, i seguenti elementi: 1) il soggetto non deve aver partecipato al delitto dal quale i beni provengono: il c.d. delitto presupposto (furto, appropriazione indebita, rapina, ecc…); 2) il bene culturale deve essere di provenienza delittuosa (e non semplice reato) e trovarsi nella disponibilità del soggetto per ragioni di acquisto, ricezione o ancora occultamento; 3) il bene deve essere di natura culturale, secondo il Codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 10 D.Lgs.vo n. 42 del 2004).

Sotto il profilo soggettivo la persona deve essere consapevole della provenienza delittuosa del bene culturale e deve aver agito in vista di un suo, o di altri, profitto, non necessariamente di natura economica. Si dice al riguardo che il soggetto agisce in vista di un dolo specifico.

Nella realtà accade sovente che la persona, nel prospettare proprie giustificazioni, dichiari di non essere stato a conoscenza della provenienza delittuosa del bene culturale per averlo, per esempio, acquistato su una bancherella di mercati di antiquariato, come ce ne sono tanti nelle piazze di paese la domenica. Ogni caso è, ovviamente, a sé, ma va detto che la genericità delle giustificazioni fornite dalla persona, potrebbe già deporre a favore della sussistenza della propria consapevolezza circa la provenienza delittuosa del bene, orientamento quest’ultimo confermato in alcune pronunce della Corte di Cassazione.

Cerchiamo ora di capire se la norma in esame possa trovare applicazione al caso di scuola sopra rappresentato.

Potremo già dire che concorrono tutti gli elementi essenziali del fatto concreto perché Tizio possa rispondere di ricettazione di beni culturali.

Infatti egli non ha partecipato alla perpetrazione del delitto da cui provengono i reperti archeologici. Spesso, infatti, sono i «tombaroli» che commettono il delitto di furto, si tratta cioè di quei soggetti che scavano nel suolo delle aree archeologiche per la ricerca di corredi funerari e monete per poi venderli ai ricettatori.

Con riguardo, poi, alla natura dei beni di cui Tizio è stato trovato in possesso, è possibile affermare che essi rientrino nella categoria dei beni culturali di natura archeologica, ai sensi dell’art. 10 del Codice dei beni culturali e paesaggistici, così come accertato dall’archeologo in sede di expertise. Peraltro i reperti archeologici sono considerati beni culturali appartenenti di diritto allo Stato, perché provenienti dal sottosuolo o dai fondali marini.

Inoltre, Tizio ha agito in vista di un suo specifico interesse costituito probabilmente dalla volontà di alienare i beni di cui è stato trovato in possesso, e ciò lo dimostra il fatto che li deteneva presso di sé all’interno della propria abitazione benché la legge prevedesse l’obbligo della denuncia in caso di loro ritrovamento.

Quindi, posto che sotto il profilo oggettivo e soggettivo non sembrano esserci dubbi sulla possibilità che Tizio possa rispondere del reato contestato, occorre porsi la domanda fino a che punto possa tenersi in considerazione la legittimità delle giustificazioni dallo stesso rappresentate.

In un primo momento Tizio afferma che i reperti li aveva trovati in un terreno non meglio saputo indicare. Come è ormai noto il Codice dei beni culturali e del paesaggio sancisce, all’art. 91, che i beni culturali indicati all’art. 10, da chiunque e in qualunque modo ritrovati nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato. I reperti rinvenuti nella disponibilità di Tizio sono per loro natura reperti archeologici in quanto provenienti dal sottosuolo e, quindi, beni culturali appartenenti allo Stato. Peraltro lo stesso Codice impone l’obbligo della denuncia entro ventiquattro ore a carico di chi scopre fortuitamente beni culturali indicati nell’articolo 10.

Ne consegue quindi che Tizio non possa essere scusato per aver trovato fortuitamente i reperti nel terreno, come asseritamente affermato.

Veniamo ora all’altra giustificazione di Tizio, ossia di aver ricevuto tali reperti per successione mortis causa dal padre defunto. Anche questa giustificazione è destituita di fondamento.

L’ordinamento giuridico, infatti, già dal 1909, con la legge n. 364, prevedeva che i beni archeologici appartenessero allo Stato e prima di questa legge vi era, in effetti, un vuoto normativo per cui chiunque poteva avanzare diritti su tali beni senza andare incontro a responsabilità illecite.

Dal 1909 chiunque dovesse avanzare diritti su beni archeologici, come nel caso di Tizio, che afferma di averli ricevuti dal padre defunto, è tenuto a provare di averli acquistati o comunque ricevuti prima del 1909 e in caso non vi si riuscisse, la norma attualmente in vigore afferma quella che in gergo giuridico viene definita come «presunzione di legge», ciò significa che l’ordinamento, in mancanza di prova da parte del soggetto, presume l’appartenenza dei beni allo Stato. Va da sé che se il soggetto riuscisse a dare prova di averli ricevuti prima del 1909, per esempio attraverso un atto testamentario, non può essergli mossa alcuna contestazione circa l’illecita detenzione, fermo restando il potere per la Soprintendenza di adottare un provvedimento tutorio che ne vincoli la circolazione e attuare i principi conservativi e di fruibilità.

In conclusione possiamo, quindi, affermare che ricorrendo tutti gli elementi cui innanzi si è detto, Tizio rischia invero la condanna per ricettazione di beni culturali.

Tuttavia, nella prassi potrebbe accadere che nonostante la sussistenza del fatto-reato, l’imputato venga assolto dall’accusa di ricettazione, supponiamo per mancanza della sua consapevolezza circa la provenienza delittuosa dei beni, con la conseguenza che possa venire disposta la restituzione in suo favore dei beni sequestrati. In tali casi – cui invero si sono registrati nella realtà– l’ordinamento non è del tutto sfornito di ulteriori elementi di tutela dei beni. Si auspica, infatti, che gli organi preposti, e più precisamente la Soprintendenza, adottino un provvedimento amministrativo di tutela dei reperti, quantunque restituiti alla persona a cui erano stati sequestrati. Ciò, oltre a comportare una serie di poteri dell’autorità, essenzialmente riconducibili al controllo che quest’ultima sarebbe legittimata ad effettuare circa la loro conservazione e circolazione, ne garantirebbe, inoltre, la fruizione (per esempio nell’ambito di mostre, convegni, studi, ecc…), restituendo così, seppur momentaneamente, manufatti antichi sottratti alla nostra identità.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Leonardo Miucci

Scritto in data: 29 gennaio 2023

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Pubblicato da Leonardo Miucci

Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, precedentemente in servizio presso la Sezione TPC di Siracusa