La tutela del Patrimonio Culturale in Italia dalle origini alla Seconda Guerra mondiale – Parte 3: storia della catalogazione dei beni culturali

Le origini dell’attività di catalogazione dei beni culturali in Italia si possono far risalire alla legislazione del Granducato di Toscana che, il 24 ottobre 1602 adottava la deliberazione, emessa da Ferninando de’ Medici, allo scopo di limitare la dispersione fuori dai territori granducali di opere di particolare pregio perché realizzate da diciotto illustri artisti (Michelangelo Buonarroti, Raffaello Sanzio, Andrea del Sarto, Beccafumi, il Rosso Fiorentino, Leonardo da Vinci, Franciabigio, Perin del Vaga, Jacopo da Pontormo, Tiziano, Francesco Salviati, Agnolo Bronzino, Daniele da Volterra, Fra Bartolomeo di San Marco, Sebastiano del Piombo, Filippino Lippi, Antonio Correggio, il Parmigianino) indicati in un elenco in calce al provvedimento. Nonostante i limiti dettati dal numero ristretto di artisti le cui opere erano soggette alla norma, la deliberazione del 1602, con l’elenco dei diciotto prestigiosi artisti, rappresenta, ad ogni modo, un primo significativo tentativo di definizione dei beni da tutelare.

Lo Stato Pontificio, con l’editto del 1704, emanato a cura del Cardinal Spinola, dimostrava di possedere già una certa consapevolezza del grande patrimonio culturale di Roma, includendo nei beni degni di tutela anche le testimonianze scritte, come parte del contesto storico-artistico all’interno del quale esse vennero prodotte.

La Repubblica veneziana, il 20 aprile 1773, emanava un provvedimento secondo il quale doveva essere formato un catalogo in cui descrivere le opere pittoriche conservate in chiese e altri luoghi di culto presenti sul territorio per necessità di conoscenza delle stesse, ma anche per evitare che esse venissero in qualche modo manomesse attraverso interventi non adeguati, oppure disperse tramite vendite e alienazioni. L’elenco doveva essere suddiviso secondo i luoghi in cui i beni erano conservati. L’incarico di ispettore generale fu affidato ad Antonio Zanetti con atto del 31 luglio 1773. Egli, quindi, avrebbe dovuto presiedere alla compilazione di un elenco in cui fossero censiti tutti i dipinti presenti sul territorio di Venezia e delle isole circostanti. Inoltre, l’Ispettore, con cadenza semestrale, doveva presentare una relazione sullo stato di conservazione delle opere catalogate. Il limite di un tale provvedimento dimorava nell’interessarsi ai soli beni ecclesiastici e alle sole pitture, mentre non venivano presi in considerazione i patrimoni privati.

Sulla stessa scia e per la stessa esigenza di contrastare la dispersione del patrimonio fuori dai territori statali, si pose l’editto Doria del 2 ottobre 1802. L’intervento legislativo poneva una limitazione al libero godimento dei beni di proprietà privata, appartenenti, cioè, ai singoli cittadini, favorendo, invece, l’interesse pubblico. I privati che si trovavano in possesso di “oggetti antichi o pregevoli di Arte” dovevano farne dichiarazione allo Stato pontificio, pena la confisca. Inoltre l’Ispettore Generale delle Belle Arti, individuato nella persona di Antonio Canova, o dei suoi incaricati, avrebbe dovuto controllare lo stato di tutte le opere, di cui i proprietari avessero dichiarato il possesso. La politica di controllo si sarebbe attuata attraverso lo strumento dell’istituto dell’assegna, vale a dire il documento descrittivo dei beni posseduti che enti pubblici e privati avrebbero dovuto presentare alle autorità competenti. Le informazioni raccolte sarebbero poi confluite in un inventario. La norma presentava, quindi, il limite di affidare alla libera volontà del singolo di denunciare il possesso dei beni. Il successivo Editto Pacca, il più completo testo giuridico emanato fino ad allora sull’argomento, introduceva, oltre a una struttura amministrativa che faceva capo a una commissione centrale a Roma, il catalogo delle opere d’arte in edifici pubblici e la tutela delle arti e tradizioni popolari.

Negli Stati preunitari e nei primi anni dell’Italia unita, l’evoluzione della cultura giuridica in tema di tutela del patrimonio si sviluppò intorno al difficile rapporto tra difesa della proprietà privata e interesse pubblico. In seguito all’Unità d’Italia, la costituzione di un catalogo, che andasse a delineare la consistenza e lo stato di conservazione del patrimonio nazionale, fu una delle principali preoccupazioni del neo Stato italiano, anche se di primaria urgenza era la riorganizzazione delle strutture amministrative centrali e degli uffici periferici. D’altro canto, subito dopo l’Unità d’Italia e facendo seguito alle soppressioni ecclesiastiche, si cominciò col dare a Giovan Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli un incarico di catalogazione. I due studiosi furono incaricati dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione, Francesco De Sanctis, di redigere un primo catalogo degli oggetti d’arte di proprietà ecclesiastica (le sole pitture) dell’Umbria e delle Marche. I due studiosi compilarono elenchi particolareggiati, visitando anche luoghi remoti, schedando opere di autori e personalità minori o, addirittura, fino ad allora non conosciute, controllando lo stato di conservazione delle opere e, dove ve ne fosse stato bisogno, fornendo consigli per migliorare l’idoneità dei luoghi in cui esse erano collocate e delle modalità di conservazione stessa. Talvolta suggerirono anche di trasferire i dipinti in luoghi più sicuri, proponendone una musealizzazione.

L’ottimo metodo adottato da Cavalcaselle e Morelli fu preso a modello dai successivi compilatori, ma il lavoro svolto dai due grandi studiosi, pur nell’eccellenza della metodologia utilizzata, risultava incompleto per due motivi: innanzitutto perché esso non comprendeva né sculture né prodotti delle arti minori, ma solo opere pittoriche; poi perché era limitato alle due regioni sopra citate. Ad ogni modo, altri tentativi vennero fatti in quello stesso periodo. Dal 1862 al 1865, il Consiglio provinciale di Siena commissionò a Francesco Brogi, Ispettore dell’Accademia provinciale delle belle arti, il catalogo delle opere d’arte di quella provincia, che fu poi pubblicato in fascicoli, uno per ogni comune. L’esempio di Siena condusse a provvedere al catalogo delle opere d’arte appartenenti alle provincie di Firenze e Arezzo. Quindi, con l’emanazione del Regio Decreto del 7 giugno 1866, n. 2992, si fece obbligo alla Commissione Consultiva di Belle Arti, istituita lo stesso giorno col Regio Decreto n. 2991, di compilare e mantenere gli inventari di tutti gli oggetti d’arte presenti in edifici pubblici, sia laici che religiosi, oppure esposti al pubblico in luoghi privati del territorio delle due provincie.

Una volta istituita la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti nel 1882, quindi riordinata l’amministrazione con nuovi organi provinciali, chiamati inizialmente Commissariati poi Uffici regionali, si intese dare un cospicuo avanzamento alla redazione del catalogo. L’allora ministro Martini istituì un ufficio speciale limitandone però il compito alla compilazione del catalogo dei soli monumenti.

Il suo successore Baccelli abolì tale ufficio ampliando il lavoro anche agli oggetti d’arte e affidandolo agli organi provinciali. Gli effetti furono positivi e si compilarono migliaia di schede, al tempo dei due direttori generali Giuseppe Fiorelli e Felice Barnabei.

Il primo decennio del XX secolo portò ad un’ampia e fruttuosa discussione in tema di censimento e tutela dei beni culturali, nonché all’emanazione delle leggi e delle norme che posero le basi della moderna legislazione e gestione delle belle arti in Italia. Il 27 giugno 1907 vide la luce la Legge per gli Uffici e il Personale delle Antichità e Belle Arti, che per la prima volta regolarizzava la costituzione degli uffici amministrativi delle soprintendenze e la nomina degli impiegati, tramite selezioni per titoli e concorsi. Meno di due mesi più tardi, precisamente il 26 agosto, veniva emanato a livello nazionale anche il primo vero Decreto Legge per la redazione dell’inventario dei monumenti e degli oggetti di antichità e d’arte. Il Decreto recitava di prendere in considerazione le “cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico e artistico […] compresi i codici, gli antichi manoscritti, gli incunaboli, le stampe e incisioni rare o di pregio e le cose di interesse numismatico” e premetteva che:

[…] per la compilazione di questo catalogo è opportuno servirsi di tutte le vere competenze, di tutte le forze vive ed operanti che meglio abbiano mostrato di sapersi affermare nel campo dell’archeologia e della storia dell’arte, il lavoro dovrà necessariamente compiersi in condizioni del tutto diverse di comodità e di celerità, a seconda che esso – effettuandosi nelle grandi città o in solitari paesi di montagna – sia reso più o meno agevole dalle distanze da percorrere e dall’abbondanza o dal difetto delle fonti di studio, degli oggetti da descrivere e dei mezzi di trasporto; e […] d’altra parte è necessario stabilire per tutti i collaboratori un’equa retribuzione, la quale comprenda a un tempo l’indennità di missione e un moderato compenso per il lavoro eseguito. [Quindi la realizzazione del catalogo] comprenderà una serie di volumi illustrati, per la cui compilazione verranno di volta in volta affidate speciali missioni […] a persone di riconosciuta competenza negli studi.

Ne è conseguito che il lavoro fosse prevalentemente condotto da funzionari dell’amministrazione delle belle arti, agevolati in speciali e determinate occasioni anche da collaboratori esterni a questa. Delegando però all’esperienza di “tutte le vere competenze”, si perse l’occasione, ancora una volta,  per imporre definitivamente un criterio unico di catalogazione valevole su tutto il territorio nazionale, preferendo procedere in modo differenziato a seconda delle singole realtà locali mediante l’avvio di molteplici iniziative burocratico-amministrative di livello appunto locale. All’interno della Relazione del 15 maggio 1909 che accompagnava il disegno di legge Per le antichità e le belle arti dello stesso anno, conosciuta poi come “Legge Rava – Rosadi”, lo stesso Rosadi sottolineava l’importanza della compilazione di “elenchi descrittivi” delle cose sottoposte a tutela. Elenchi che gli enti territoriali avrebbero dovuto trasmettere al Ministero e che avrebbero dovuto costituire un primo strumento di conoscenza del patrimonio, andando, quindi a fronteggiare il problema dei furti, della dispersione e dell’esportazione illecita delle cose stesse. Mutavano, così, i criteri metodologici rispetto alla legge di tutela del 1902. Negli anni successivi al 1909, si procedette con impegno alla ricognizione del patrimonio storico artistico e a pubblicarne i risultati, spesso di alto valore scientifico, sulle pagine di “Bollettino d’Arte”.

Sulla scia del mutato presupposto normativo che stava alla base dell’azione di tutela, l’allora Direttore Generale, Corrado Ricci, riprese, tra il 1911, anno in cui si emanava il Regio Decreto 28 luglio 1911, n. 916, Norme per la compilazione dell’elenco indicativo degli oggetti d’arte mobili del Regno, e il 1914, la pubblicazione di una prima serie di elenchi suddivisi per provincia e quindi ancora del tutto approntati su base topografica. Fu così che, grazie ad una continua rielaborazione e riflessione sulle prime leggi di tutela e le indicazioni dei tre lumi tutelari, Rava, Ricci, Rosadi, col regio decreto del 1923, Norme per la compilazione del catalogo dei monumenti e delle opere d’interesse storico, archeologico e artistico, integrato nello stesso anno dalle Norme per la riproduzione, mediante fotografie, di cose mobili e immobili d’interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico, arrivarono indicazioni precise riguardo il catalogo. Esso doveva essere costituito da schede, prodotte in tre esemplari e corredate da riproduzioni fotografiche.

Si ebbero, invece, per la prima volta, indicazioni puntuali sull’ordine in cui disporre le informazioni, con quanto espresso nel Regolamento per la custodia, conservazione e contabilità del materiale artistico, archeologico, bibliografico e scientifico del 1927.

Recita l’articolo 4 del Regolamento:

I cataloghi devono contenere per ciascuna cosa le indicazioni che seguono:

Per le raccolte artistiche e archeologiche:

  1. Nominativo della cosa;
  2. Materia e dimensioni;
  3. Soggetto rappresentato;
  4. Età o scuola cui appartiene e, s’è possibile l’autore;
  5. La provenienza e, quando sia utile, anche l’indicazione del luogo dove la cosa sia stata in origine rinvenuta: questa indicazione deve sempre annotata per gli oggetti di antichità o comunque di interesse archeologico;
  6. […] In tutti i cataloghi dev’essere annotata l’indicazione del luogo ove gli oggetti sono collocati, e del loro stato di conservazione.

Sulla base delle norme espresse nel Regolamento e della Relazione sul servizio di catalogo delle cose d’arte e sulle pubblicazioni connesse di Roberto Longhi, si gettarono le basi scientifiche del catalogo. Lo studioso proponeva di apportare sostanziali modifiche ai “cartellini segnaletici”, come egli li definì, che erano stati prodotti sulla base dei precedenti criteri di catalogazione. In particolare suggeriva di limitarsi alle indicazioni indispensabili ai fini della descrizione dell’oggetto, quindi “soggetto e particolarità iconografiche; misure esatte; materiale e tecnica usati”, che egli stesso definisce “dati identificativi”.

Nonostante la frammentarietà delle esperienze, ancora troppo diversificate tra loro a livello nazionale, prosegue Longhi nella sua Relazione del 1938, il materiale che andava via via raccogliendosi grazie alla compilazione di elenchi e cataloghi, rendeva comunque necessaria la pubblicazione di tali risultati. A partire dall’Elenco degli Edifici Monumentali del 1902, molte furono le pubblicazioni, tra cui i Cataloghi delle cose d’arte e di antichità, gli Inventari degli oggetti d’arte, le Guide dei musei e gallerie d’Italia e gli Itinerari dei musei e monumenti d’Italia.

Scriveva ancora Longhi a tal proposito:

Evidentissimo, dunque, il collegamento iniziale fra il lavoro di elencazione a fini amministrativi e la elaborazione scientifica del materiale schedato; e intuitivo che tale collegamento non debba essere sciolto, anzi rafforzato e approfondito in rapporto alle accresciute esigenze tecniche e culturali, col perfezionare, in perfetta correlazione, da una parte, la formulazione dello schedario, dall’altra, la struttura delle pubblicazioni che in qualche modo ne conseguono.

Sosteneva, inoltre, Longhi, come nella compilazione della scheda di catalogo occorresse sottolineare l’importanza della documentazione fotografica, l’indicazione del valore intrinseco, del valore di connessione ambientale e pregio del materiale impiegato. Con il concetto di “connessione ambientale”, Longhi esprimeva l’importanza del contesto in cui l’opera veniva realizzata e in cui si trovava, prefigurando, in un certo qual modo, il legame intrinseco dell’opera stessa col territorio.

Bibliografia essenziale:

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S. Casiello, R. Picone, E. Romeo, Criteri e metodi per la catalogazione dei beni Culturali, Napoli, CUEN, 1996.

V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2001.

L. Corti, I beni culturali e la loro catalogazione, Milano, 2003.

A. Emiliani, Una politica dei Beni Culturali, Torino, Einaudi, 1974.

A. Emiliani, Leggi bandi provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani, 1571-1860, Bologna, Nuova Alfa, 1996.

D. Levi, Cavalcaselle: il pioniere della conservazione dell’arte italiana, Torino, Einaudi, 1988.

R. Longhi, Relazione sul servizio di catalogo delle cose d’arte e sulle pubblicazioni connesse,in “Le Arti”, dicembre 1938 – gennaio 1939, I, fasc. 2., pp. 144-149.

F. Negri Arnoldi, Il catalogo dei beni culturali e ambientali: principi e tecniche di indagine, Roma, Carocci, 1998.

M. Scolaro, Dalla parte del catalogo: vicissitudini della legge di tutela dei beni artistici e storici, in Emiliani A., a cura di, Le opere e i luoghi, Bologna, Silvana Editoriale, 1997, pp. 15 e ss.

M. Speroni La tutela dei beni culturali negli Stati italiani preunitari, vol. 1, Milano, Giuffrè, 1988.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Caterina Zaru

Scritto in data: 21 marzo 2021

In copertina: foto di Suzy Hazelwood (da: https://www.pexels.com/)

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