Restauro: verità o menzogna?

Veduta di Carcassone (Chensiyuan, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons)

In questo contributo, si cercherà di offrire al lettore il quadro di un tema molto peculiare: la rivalutazione della vita e delle arti del Medioevo nell’Ottocento europeo.

Subito dopo, verranno analizzati due pensieri che si posizionarono, nel terreno culturale dell’epoca, come le falangi di due schieramenti opposti: l’uno, quello di un architetto, impegnato a restituire agli edifici medievali una seconda vita, risarcendone, come un filologo che ricostruisce i pezzi mancanti di un testo antico, le parti andate quasi o totalmente distrutte; l’altro, quello di un critico d’arte, che combatté, con la carta e l’inchiostro, ogni forma di restauro, decantando le rovine di quel lontano passato.

Nel seno dello spirito romantico, ebbe così inizio il cosiddetto Gothic Revival, una corrente mirante all’imitazione dell’arte medievale e, nello specifico, dell’architettura gotica. Questo sentimento, che gettava uno sguardo al passato, nacque anche sotto la spinta di una critica rivolta alla società odierna, vista come decadente su molti aspetti della vita, tra cui anche la produzione artistica che, di conseguenza, veniva etichettata come di “cattivo gusto”; le costruzioni medievali, invece, proprio perché nate da una società considerata migliore sotto il profilo morale, non potevano che essere belle come gli spiriti che le avevano generate.

La personalità che meglio rappresentò questo modo di percepire la realtà fu sicuramente Augustus Pugin: egli nacque a Londra nel 1812 e, nella prima giovinezza, svolse diverse attività: si ricorda che, appena quindicenne, eseguì disegni di vasellame presso la ditta “Rundel & Bridge” – orefici di casa reale – e, nel nascente gusto neogotico, quelli dei mobili per Windstor Castle. Già da queste poche informazioni biografiche, si può ben capire il punto di partenza di quest’uomo, quello cioè di un artigiano volto alla scoperta di forme del passato, in un momento storico in cui, altrove, la civiltà era quella delle macchine industriali. Parallelamente alla sua attività, Pugin iniziò anche a scrivere, prendendo le distanze dal presente sin dai titoli che sceglieva per le sue opere: è del 1835 Contrasti: ovvero un confronto fra i nobili edifici del Medioevo e le costruzioni odierne corrispondenti, dimostrante la decadenza del gusto d’oggi, in cui denuncia aspramente la decadenza etica, e quindi anche di gusto, della sua società, elogiando invece il Medioevo i cui pregi artistici derivarono dall’alta moralità dei suoi artisti. È qui di grande rilievo il nesso arte-società: un’architettura è bella perché riflesso della gente che l’ha pensata e poi prodotta; a sua volta, l’oggetto artistico, essendo bello, possiede anche uno scopo, perché «in un edificio non dovrebbero sussistere elementi che non siano necessari per comodità, struttura e convenienza». D’altro canto, le odierne costruzioni sono “brutte” perché nate da spiriti umani legati, secondo Pugin, al miglior investimento dei loro soldi, quindi da bassa moralità.

Questo costituisce il punto di partenza. Dopodiché, iniziarono a formarsi pensieri contrastanti intorno ad un dilemma amletico: gli edifici medievali, laddove presentassero parti da risarcire, avrebbero dovuto essere restaurati, oppure l’uomo doveva tirarsene fuori?

Ritratto di John Ruskin (W. & D. Downey, Public domain, via Wikimedia Commons)

Ebbene, il critico d’arte John Ruskin avrebbe risposto con la seconda di queste affermazioni, lui che, nelle sue trentanove opere, intrise ogni pagina di pura poesia. Ruskin nacque nella stessa Londra di Pugin e, come questi, iniziò a descrivere la società moderna con una certa punta, ora di suggestione, ora di astio. Entrando nel merito del discorso, nel 1851 diede alle stampe Le Pietre di Venezia, in cui dedicò un capitolo intero alla natura del gotico, considerato una delle pagine più celebri delle rievocazioni ottocentesche della civiltà e dell’arte medievali. Qui, e altrove, l’Autore definì lo stile gotico come la massima manifestazione del libero arbitrio dell’artista medievale. Egli, quindi, fa coincidere questa tarda fase dell’arte medievale con la libertà artistica in generale contro – ecco l’altra faccia della medaglia – l’odierna schiavitù prodotta dalle macchine industriali; inoltre, come già Pugin, l’artista di allora era, rispetto a quello di oggi, superiore anche sotto il profilo della moralità.

Una volta portata a termine, l’opera d’arte aveva così ricevuto, come impresse in un sigillo, tutte le qualità del suo artefice, ma – entrando nel merito di un’architettura medievale – la “maggiore gloria” che essa avrebbe potuto acquisire era una soltanto: il tempo. Per John Ruskin, il tempo era quel tocco di sublimità che un edificio medievale avrebbe assimilato grazie alle crepe, alle fratture, alle macchie della vegetazione, cioè alla mutazione del suo aspetto dovuta agli anni. A questo punto, l’immaginazione dell’uomo dell’Ottocento, osservando quelle rovine, avrebbe compiuto una reintegrazione dell’immagine originaria dell’opera architettonica – com’era –, riconoscendone la vitalità perduta.

Giunti fin qui, non ci si stupirà se, sulle pagine de Le sette lampade dell’architettura del 1849, l’inchiostro fissò frasi del tipo «il restauro è una menzogna dal principio alla fine», oppure «il restauro è distruzione». Esso infatti, secondo l’autore, è azione ingannevole a seguito della quale, risarcita la crepa su di un muro, l’immaginazione non si sentirà più stuzzicata dal rievocarne l’aspetto originario; il nuovo, a quel punto, si sarebbe inesorabilmente mescolato all’antico, confondendo l’uomo, allontanandolo dalla verità artistica. Quindi, continua, un monumento «dovrà vivere il suo giorno estremo, ma lasciamo che quel giorno venga apertamente e senza inganni».

Questa una parte del pensiero di John Ruskin, autore sfaccettato per il quale, è stato osservato, «è quasi impossibile citare una sua idea senza essere in grado di citare qualche passo in cui egli la contraddice in modo patente: e questo spesso avviene in una stessa opera. La cosa gli piaceva, anzi soleva dire che aveva la sensazione di essere ormai prossimo alla verità quando si era contraddetto almeno tre volte».

Ora, non rimane che analizzare la seconda ed ultima personalità, con cui si chiuderà questo contributo: Eugène Viollet-le-Duc.

Ritratto di Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc (Nadar, Public domain, via Wikimedia Commons)

Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc nacque a Parigi, nel 1814. Lui, architetto e storico di architettura, fu uno dei principali esponenti del neogotico francese. A partire dagli anni Quaranta, volto l’interesse verso lo studio dell’architettura medievale, iniziò a praticare una serie di restauri, tutti convergenti verso il ripristino cosiddetto di stile o stilistico: esso consisteva nella parziale o totale ricostruzione di monumenti antichi secondo lo stile proprio, cioè secondo le forme e gli elementi con cui vennero alla luce la prima volta; perciò, esso non doveva essere suscettibile di alcuna interpretazione, e quindi variazione, da parte del restauratore.

A fronte di questa teoria, comprendiamo quanto studio fosse a monte di un intervento di questo tipo; oltretutto, un’architettura avrebbe potuto subire, nel corso della sua esistenza, ricostruzioni seriori che, sommandosi a quelle originarie, complicavano, e non di poco, la sua storia edilizia. Viollet-le-Duc, conscio di questo frequente problema, soprattutto se pensiamo ai monumenti medievali, così si espresse nel suo Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI secolo (1854-1868), una raccolta dove gli elementi architettonici, accompagnati da disegni, erano classificati per periodo e per regione: «Restaurare un edificio non significa mantenerlo, riparlo o rifarlo, ma ristabilirlo in uno stato d’integrità che può non essere mai esistito». Infine, laddove fosse stato impossibile riuscire a comprendere lo stato originario di un edificio, si sarebbe seguito il criterio analogico. Facciamo un esempio: sulla facciata di una chiesa, una finestra manca di una parte della decorazione che le è tutt’attorno. Per analogia, ne eseguirò la ricostruzione basandomi sulla decorazione, ancora intatta, della finestra che si trova subito accanto. Questa modalità potrebbe perdere terreno se, legittimamente, si sollevano i seguenti dubbi: e se la decorazione della finestra appena risarcita fosse stata diversa perché, ammettiamo, essa venne realizzata in una fase edilizia successiva, oppure perché posizionata in una zona centrale per la quale, quindi, necessitò di una messa in evidenza che l’avrebbe distinta dalle altre? Ed infine, ma non ultima perplessità: e se la decorazione non fosse stata mai realizzata, sarei stato legittimato a costruire qualcosa che non è mai esistito?

Il lettore, arrivato a questo punto, avrà facilmente compreso i rischi a cui una simile teoria del restauro sarebbe potuta andare incontro.

Osserviamo ora, data la vastità del suo operato, tre dei principali restauri eseguiti dall’architetto francese, aiutandoci con il confronto fotografico: il primo è quello riguardante la chiesa della Madeleine a Vézelay, eseguito tra il 1840 ed il 1859. Il restauro in questione, tuttavia, non fu particolarmente incisivo: l’autore, infatti, si limitò a risarcire la parte in rovina, mancando di ricostruire la torre di sinistra.

La facciata oggi (Gerd Eichmann, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons)

Tra il 1844 ed il 1879, dunque per oltre trent’anni, Viollet-le-Duc fu poi impegnato nella incredibile ricostruzione della cittadella di Carcassonne, di cui rifece le torri, le guglie e le merlature delle fortificazioni medievali attorno.

Infine, l’opera di restauro che consacrò la sua carriera fu sicuramente quella eseguita sulla Cattedrale di Notre-Dame a Parigi, che noi, oggi, rimpiangiamo dopo l’incendio del 15 aprile del 2019.

Al tempo dell’architetto, la cattedrale versava in uno stato di abbandono, soprattutto a seguito dei moti della Rivoluzione Francese durante i quali, infatti, venne presa prima d’assalto e poi sconsacrata. Per questo, tra il 1845 ed il 1865, Viollet-le-Duc non solo ne ripristinò il sistema murario ma, in vent’anni di lavoro, anche il ricco apparato scultoreo come la famosa Galleria dei Re posta in facciata; a tal proposito, le teste erano state mutilate durante la violenza rivoluzionaria, ma le sculture riemersero ai lati dell’edificio soltanto nel 1977; quindi il restauratore agì, ricostruendo, secondo criterio analogico. Con le stesse modalità, fece innalzare la famosa guglia – andata completamente distrutta dall’incendio, come si può vedere nell’immagine di sopra – posizionata all’incrocio tra la navata centrale ed il transetto che, negli stessi moti francesi, era stata demolita: attorno, sono alcune statue in bronzo – queste, per fortuna, scampate dalle fiamme –, tra cui quelle dei dodici apostoli che guardano verso il basso. Una soltanto invece, quella di San Tommaso, protettore degli architetti, il cui volto sembrerebbe essere quello dello stesso Eugène Viollet-le-Duc, guarda verso l’alto. Che cosa? Naturalmente la flèche, la guglia.

Non tutto ciò che si vede è sempre realtà. Noi, testimoni di una storia, abbiamo il dovere di garantire il passaggio del testimone. Il restauro non è menzogna, come Ruskin scriveva, e nemmeno elisir di lunga vita, come fu per Viollet-le-Duc. Il restauro sarà sempre una delle uniche strade possibili, laddove si abbia la possibilità di intervenire, conservando il passato.

Bibliografia essenziale:

  • Bologna 1972 = F. Bologna, Dalle arti minori all’industrial design. Storia di una ideologia, Bari 1972.

Sitografia essenziale:

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Giulia Abbatiello

Scritto in data: 15 marzo 2021

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

Foto di copertina: Veduta di Carcassone (Chensiyuan, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons)

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About Giulia Abbatiello 31 Articles
Storica dell'arte, Bibliotecaria e abilitata all'insegnamento della Storia dell'Arte (classe A-54) nelle scuole secondarie di secondo grado. Si laurea nel 2020 in Storia dell'Arte con 110 e lode all’Università degli Studi di Roma "La Sapienza". L'anno successivo consegue il diploma di Master di II livello in “Strumenti scientifici di supporto alla conoscenza e alla tutela del patrimonio culturale” presso l'Università degli Studi di “Roma Tre”. Diplomatasi presso la Scuola Vaticana di Biblioteconomia (2023), ha preso parte al al progetto di catalogazione del libro antico del Fondo "Antichi e Rari" della Biblioteca della Pontificia Università Gregoriana e collabora attualmente al progetto di catalogazione dei manoscritti miniati del Fondo "Urbinate" nell’ambito del “Censimento e catalogazione dei manoscritti miniati della Biblioteca Apostolica Vaticana”, sostenuto dall’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e dall’Università degli Studi della Tuscia.