Capolavori salvati dalla guerra: l’impegno di Emilio Lavagnino, un Monuments Man italiano (parte 1)

Foto di Foto di Greg Montani (https://pixabay.com/)

Dai ricoveri extraurbani al Vaticano

Le antiche vestigia romane, i quadri, gli affreschi, le sculture nei musei e nelle sale dei palazzi, salvati dalle offese del tempo e degli uomini, ci appaiono oggi come testimoni eloquenti della grandezza dell’Urbe e delle vicende di cui è stata protagonista. Molte sono state le situazioni che, nell’evolversi della storia, hanno teso insidie ai capolavori italiani; le ultime, in tempi recenti, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando l’avidità degli occupanti e la brutalità degli eventi bellici ne hanno seriamente messo a rischio la sopravvivenza e la permanenza in Patria.

Fortunatamente persone straordinarie, rese temerarie dall’amore per l’arte, hanno saputo organizzarsi accuratamente mentre la città era nel caos, si sono arrischiate per vie impervie e sotto i bombardamenti, hanno mostrato nervi saldi e usato parole efficaci di fronte ai Tedeschi occupanti, hanno cercato e trovato ripari sicuri per portare i capolavori dell’arte “fuori dalla guerra”, per usare la significativa espressione con cui Raffaella Morselli ha intitolato il suo libro sull’argomento.

La loro è la storia dei “Monuments Men italiani”, un tema appassionante e avvincente che aggiunge alla grandezza di un patrimonio artistico senza uguali, il valore di uomini che seppero diventare eroi.

Fra questi “eroi dell’arte” trova un ruolo da protagonista Emilio Lavagnino.

Nell’imminenza del conflitto e nelle prime fasi della guerra, il pericolo principale era costituito dai bombardamenti, del cui potenziale devastante la Grande Guerra aveva fornito drammatici riscontri. I dipendenti delle Soprintendenze e i funzionari ministeriali si attivarono per la salvaguardia di opere mobili e immobili: misero in sicurezza monumenti, chiese, palazzi attraverso attenti lavori di “blindatura”, effettuati con muri o impalcature lignee riempite di sacchetti di sabbia; stesero a protezione delle preziose superfici ad affresco o a mosaico teli di juta e lastre di alluminio.

Per i beni mobili “di maggior pregio”, il rischio dei bombardamenti fu scongiurato con il trasferimento in ricoveri extra urbani, lontani da luoghi di interesse militare o strategico. La scelta di questi “depositi d’arte” fu assegnata ai Soprintendenti; essi fissarono dei criteri molto precisi per la ricerca, individuando i luoghi adeguati anche in relazione alla solidità, all’ampiezza e all’aerazione dei locali.

Così monasteri, palazzi e castelli come la Rocca di Sassocorvaro, il Palazzo dei Principi di Carpegna, il Forte Sangallo di Civita Castellana, l’abbazia di Casamari, i conventi di Santa Maria e di San Pio di Genazzano e il Palazzo Farnese di Caprarola divennero improvvisamente dei “musei universali”, ospitando, nelle antiche sale, migliaia di capolavori stipati in casse di legno.

Sempre sulle Soprintendenze ricadde la responsabilità di distinguere i capolavori da trasferire nei rifugi extra-urbani, definiti appunto “beni di maggior pregio”, dai cosiddetti “beni di alto pregio”, anche questi di straordinario valore, ma considerati inamovibili per le loro caratteristiche di delicatezza, dimensioni o tipologia. Per i “beni di alto pregio”, furono adottate strategie di protezione in loco; analogamente, si disposero tutele sul posto per la categoria dei “beni di secondaria importanza”.

La classificazione del nostro patrimonio nelle diverse tipologie e le azioni da mettere in atto per la salvaguardia di ogni categoria erano già contenute nella L. 1041 avente per oggetto la “Protezione delle cose di interesse artistico, storico, bibliografico e culturale della Nazione”, emanata il 6 luglio 1940, all’indomani dell’ingresso dell’Italia in guerra.

1. La Colonna Antonina al termine dei lavori di protezione antiaerea (foto tratta da: Direzione Generale delle Arti, La protezione del patrimonio artistico nazionale dalle offese della guerra area, Le Monnier, Firenze 1942)
2. Opere di protezione antiaerea all’Arco di Costantino (foto tratta da: Direzione Generale delle Arti, La protezione del patrimonio artistico nazionale dalle offese della guerra area, Le Monnier, Firenze 1942)
3. SS. Cosma e Damiano: bendaggio di juta sui mosaici (foto tratta da: Direzione Generale delle Arti, La protezione del patrimonio artistico nazionale dalle offese della guerra area, Le Monnier, Firenze 1942)

Questo complesso e delicato lavoro bastò a proteggere inestimabili beni artistici fino al luglio del 1943 quando, con lo sbarco alleato in Sicilia e la destituzione di Mussolini, i bombardamenti aerei non costituirono più l’unico pericolo: l’avanzata alleata da Sud e i rischi imminenti di rappresaglie naziste avevano reso i rifugi dell’arte vulnerabili a saccheggi, vandalismi e trafugamenti. Ormai i depositi non erano più sicuri.

Cominciò allora un nuovo, complicatissimo lavoro per i funzionari dell’arte impegnati a riportare a Roma i beni trasferiti fuori città. È possibile ricostruire l’itinerario salvifico dei capolavori dell’Italia centrale attraverso le testimonianze di Pasquale Rotondi, Soprintendente alle Gallerie e Musei delle Marche, di Italo Vannutelli, economo del Museo di Palazzo Venezia, di Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e di Emilio Lavagnino, storico dell’arte della Soprintendenza alle Gallerie e Musei di Roma.

La cura che si riscontra nei documenti che ci hanno lasciato è una prova ulteriore della responsabilità di cui si sono sentiti investiti; gli elenchi attentissimi del contenuto di casse e faldoni sembrano il tentativo estremo di sottrarre i capolavori d’arte al caos degli eventi ancorandoli alla concretezza di schede e verbali.

Da questo dettagliato lavoro, dalle pagine redatte con puntigliosa attenzione, emerge una ricostruzione dei fatti lucida e chiara, che prende corpo restituendo una visione “a tutto tondo” dei pericoli a cui tanta parte del nostro patrimonio artistico è stata sottratta.

Particolarmente accurata è la testimonianza di Emilio Lavagnino anche grazie al contributo della figlia Alessandra che, attraverso la lettura scrupolosa dei documenti paterni, ha restituito un resoconto commosso e coinvolgente di quei giorni nel libro Un inverno 1943-1944.

Il racconto prende l’avvio dalla descrizione dei luoghi che la giovane Alessandra, allora quindicenne, frequentava: via Tacito, il quartiere Monteverde, il liceo Mamiani. Si entra nell’atmosfera difficile del tempo con il riferimento alle carte annonarie, ai geloni causati dal freddo, alle scarpe riparate con pezzi di cartone “sagomati”. Subito, la famiglia Lavagnino si caratterizza per gli atti di generosità piccoli (la nonna si privava della sua razione di latte per darlo alla nipotina più piccola) e grandi (il padre Emilio nascondeva nella sua casa di Monteverde una coppia di ebrei russi, con tutti i rischi che questo comportava).

Lavagnino era da tempo un osservato speciale da parte della polizia fascista che, in particolare, guardava con sospetto la sua amicizia con Giuseppe De Logu, storico dell’arte antifascista in esilio a Zurigo.

Le scelte politiche ebbero serie ripercussioni sulla sua carriera: divenuto ispettore a Napoli nel ’28, l’anno seguente fu trasferito alla Soprintendenza ai musei di Roma e, nel ’33, alla direzione della Galleria nazionale d’arte antica, dalla quale venne estromesso proprio in seguito al suo “disallineamento” rispetto al regime; nel ’38, dovette assumere l’incarico subalterno di ispettore centrale di seconda classe per l’insegnamento medio, che lo escludeva dall’amministrazione delle Belle Arti.

L’allontanamento da ruoli di responsabilità paradossalmente coincise con il riconoscimento da parte del mondo dell’arte del lucido impegno profuso da Lavagnino nella monografia sulla Storia dell’arte medioevale italiana, dall’età paleocristiana al Trecento, pubblicata per l’UTET nel 1936.

All’epoca, Lavagnino aveva già prodotto i suoi studi sui lavori di ripristino nella Basilica di S. Gennaro extra Moenia di Napoli, dove, durante il biennio 1927-29, si era impegnato negli interventi di restauro, contribuendo in modo decisivo al ritrovamento della basilica del V secolo, una delle scoperte più importanti dell’arte paleocristiana di quegli anni.

Una volta a Roma, si era occupato dell’opera di Pietro Cavallini, della Galleria Spada, dell’architettura di Palazzo Venezia, pubblicando l’esito dei suoi studi.

La sua era quindi una figura di storico dell’arte affermato quando la repressione del regime volle punirlo imponendogli l’allontanamento dal suo mondo.  Fu proprio allora invece che Lavagnino assunse un ruolo particolarmente attivo, ritagliandosi una parte da protagonista nella sfera dell’arte.

Nella storia, ai grandi eventi si intrecciano imprevedibili circostanze e fatti minuti; nella vita di Lavagnino, assunse grande rilievo l’incidente occorso ad Aldo De Rinaldis, all’epoca soprintendente alle Gallerie di Roma.

«Il 7 dicembre, Aldo De Rinaldis cadde in giardino…si ruppe l’omero destro. Il diario di mio padre ha inizio allora, il 10 dicembre, con la sua visita a De Rinaldis in clinica»; comincia a questo punto – come riferisce sua figlia – la grande avventura di Emilio Lavagnino: De Rinaldis gli confida le sue preoccupazioni per la sorte dei capolavori depositati a Carpegna e a Sassocorvaro e gli affida il compito di riportare i capolavori a Roma, sotto l’egida del Vaticano.

Per Lavagnino comincia un’impresa complicatissima anche nei dettagli organizzativi, a partire dalle difficoltà di reperire camion ed autisti disponibili ad effettuare quei pericolosissimi viaggi attraverso strade dissestate, sempre con il rischio dei bombardamenti; persino recuperare la nafta è un compito difficile! Nell’organizzazione delle spedizioni, Italo Vannutelli, si rivela valido e preziosissimo collaboratore, incredibilmente capace di risolvere situazioni che parevano insormontabili impasse.

Lavagnino e Vannutelli si attivano subito: prendono accordi con Marino Lazzari, direttore generale delle Antichità e delle Belle Arti, durante il Ministero Bottai; è con loro anche Giulio Carlo Argan, allora ispettore centrale nella Direzione di Lazzari.

Per riportare le opere d’arte a Roma, in Vaticano, è necessario coinvolgere anche i Tedeschi che, all’indomani dell’armistizio, sono diventati un’ingombrante forza occupante, fermamente decisa a tenere tutto sotto stretto controllo.

Delle opere d’arte si occupa il Kunstschutz; già operativo in altri Paesi occupati, viene istituito a Roma subito dopo l’armistizio, con l’incarico dichiarato di tutelare il patrimonio italiano dal nemico anglo-sassone e dai rischi bellici, con l’intento reale di sorvegliare ogni movimento relativo ai capolavori dell’arte, magari fornendo una copertura ufficiale ad indebite appropriazioni.

Così, Lavagnino, Vannutelli ed Argan devono necessariamente concordare le operazioni con il maggiore Evers e il tenente Scheibert: è ormai urgente mettere sotto la tutela del Vaticano le opere custodite nei depositi d’arte.

Finalmente, fra mille ritardi e difficoltà, il 19 dicembre con tre camion e l’auto di Vannutelli si parte per il primo viaggio salvifico. La meta è Urbino, dove ad attenderli c’è il Soprintendente delle Marche, Pasquale Rotondi, figura di riferimento per i salvataggi d’arte. Nel percorso, ci si ferma a Narni, Terni e Todi, dove un sopralluogo nelle chiese conferma che le opere sono ancora nei siti originari. Intanto, a Perugia, Lavagnino contatta il soprintendente dell’Umbria, Bertini per prendere accordi sulle opere da portare in Vaticano, in occasione di un prossimo viaggio.

Sulla Flaminia, a pochi chilometri da Urbino, la spedizione si divide: il gruppo con il tenente Scheibert si dirige in città per incontrare Pasquale Rotondi ed organizzare il viaggio da Sassocorvaro, mentre Lavagnino e gli altri vanno direttamente a Carpegna dove, per caricare tutte le casse, basta un’ora. Lavagnino si sorprende: le opere da trasportare sono molte di meno rispetto a quelle che si aspettavano di trovare! Poco più tardi, apprenderà da Vannutelli che Rotondi, temendo razzie naziste, aveva nascosto molti capolavori a Sassocorvaro e nello stesso Palazzo Ducale di Urbino, in ambienti sotterranei, mimetizzati da muri realizzati nottetempo. Inoltre, per disorientare i Tedeschi, «aveva spostato e scambiato cartellini e indicazioni, aveva fatto una gran confusione», rendendo impossibile conoscere esattamente l’ubicazione dei maggiori capolavori. Ultimo stratagemma: l’indicazione di beni appartenenti al Vaticano era stata apposta anche sulle casse appartenenti allo Stato Italiano, come ulteriore tutela per le opere che vi erano contenute. I nazisti infatti non avrebbero osato defraudare la Santa Sede alla quale erano vincolati da accordi diplomatici, ma anche dagli effetti sull’opinione pubblica internazionale.

Per recuperare le opere così occultate è quindi necessario un altro giorno di permanenza ad Urbino; infine, Rotondi lascerà partire il preziosissimo carico.

Alessandra Lavagnino racconta che il giovane soprintendente delle Marche, abbracciando suo padre, gli abbia confidato a bassa voce: «Non fossi stato tu, a un altro che si fosse presentato con un ufficiale tedesco non avrei dato proprio niente!». Una lunga amicizia e una grande stima legavano infatti Rotondi e Lavagnino, che avevano condiviso studi e lavori.

Allontanare le opere da quelle rocche era comunque urgente e indispensabile: le antiche, formidabili mura avrebbero protetto i capolavori dalle incursioni aeree, ma non dalle razzie di occupanti avidi e senza scrupoli.

Finalmente, la spedizione si avvia verso Roma alle due di notte, sotto la pioggia battente, con destinazione Palazzo Venezia che, per tutti quei mesi, è stato il centro di raccolta e di smistamento delle opere d’arte. Qui, prima del trasferimento in Vaticano, le casse venivano riaperte per controllare lo stato di conservazione delle opere e procedere ai necessari restauri, condotti rapidamente, con i pochi mezzi a disposizione; poi, si controllavano nuovamente con scrupolo gli elenchi che sarebbero diventati i documenti ufficiali del patrimonio depositato nello Stato Vaticano.

Le casse giunte a Palazzo Venezia dal viaggio urbinate contengono i dipinti di Caravaggio di Santa Maria del Popolo e di San Luigi dei Francesi e i capolavori delle Gallerie Borghese e Corsini, dell’Ambasciata italiana di Londra, delle Gallerie di Venezia e di Brera: un patrimonio inestimabile racchiuso in 120 casse, una volta portato in Vaticano, sarebbe stato finalmente posto lontano dalla guerra.

Intanto, in quel dicembre del ‘43, la situazione per i funzionari dell’arte si complica ulteriormente: la Repubblica mussoliniana avoca ai suoi Ministeri tutte le competenze gestite a Roma; il Ministero dell’Educazione Nazionale trova la sua nuova sede a Padova, sotto la direzione di Biggini, che ha sostituito Bottai. Il 15 dicembre, Lazzari viene costretto alla pensione; a Lavagnino e agli altri funzionari della Direzione delle Belle Arti viene chiesto di seguire il neoministro a Padova; nessuno accetta e tutti vengono collocati a riposo, a partire da gennaio. In realtà tutti continuano a lavorare come e più di prima, in un contesto reso ancora più difficile dalla mancanza di autorevolezza che il loro nuovo status di “pensionati” comporta.

Lavagnino e i suoi colleghi si erano comunque già schierati contro le decisioni del ministero padovano opponendosi all’ordine impartito il 12 ottobre, che imponeva di trasferire al nord tutte le opere custodite nei depositi del Lazio. A questa disposizione, Lazzari e i suoi collaboratori non diedero alcun seguito, anzi decisero di attivarsi in autonomia intensificando le trattative già avviate con il Vaticano per portare al sicuro, all’interno dei Palazzi pontifici, tutto quello che potevano del patrimonio artistico italiano. La loro lucida determinazione contrastò coraggiosamente la volontà di razzia tedesca, che contava sulla prona connivenza del governo di Salò.

Intanto, in quel mese di dicembre, Lavagnino organizza nuovi viaggi, in fretta, prima che la nuova condizione di “collocato a riposo” gli faccia perdere definitivamente l’autorità di funzionario ministeriale.

A peggiorare le cose interviene, in gennaio, la decisione del ministro Biggini che, in una riunione, ordina ai Soprintendenti di non spostare nulla dai depositi. Molti decidono di non contravvenire alle disposizioni ministeriali; tra questi Bertini, il Soprintendente dell’Umbria che, a dispetto degli accordi presi con Lavagnino in dicembre, non gli consegna le opere d’arte sotto la sua responsabilità.

Lavagnino prova ad insistere, ma alla fine deve arrendersi; si dirige ad Urbino temendo che anche Rotondi si senta costretto ad assecondare le decisioni del Ministro. Fortunatamente, Il Soprintendente delle Marche può consegnare a Lavagnino i capolavori in sua tutela senza particolari imbarazzi istituzionali; infatti, la lettera di convocazione alla riunione ministeriale reca erroneamente non la data del 9 gennaio, ma quella del 9 febbraio. Per questo, Rotondi non ha partecipato all’incontro e quindi non ha ricevuto l’ordine di lasciare i capolavori nei ricoveri. Così, d’intesa con Lavagnino, egli continua a riempire casse di opere d’arte da destinare alla custodia vaticana. Nel viaggio di gennaio, consegna quanto restava in sua custodia; proprio in quei giorni, il patrimonio si era arricchito con il Tesoro di San Marco, che lo stesso Patriarca di Venezia aveva inviato al Soprintendente marchigiano, con la precisa indicazione di portarlo in salvo in Vaticano.

Per due giorni, Lavagnino lavora ad Urbino e a Sassocorvaro, poi finalmente riparte per Roma dove, a Palazzo Venezia, procede alla consueta ricognizione dei contenuti delle casse e dello stato di conservazione delle opere. I capolavori in buone condizioni vengono portati immediatamente in Vaticano, agli altri si lavora per i necessari ripristini, prima della consegna. Più volte, i protagonisti di questa straordinaria epopea dell’arte hanno commentato di non aver mai lavorato tanto come nel periodo in cui erano stati “collocati a riposo”.

A Palazzo Venezia vengono depositate in quei giorni anche le casse provenienti da Montecassino, protagoniste di una vera odissea e riconsegnate dai nazisti in quelli che Lavagnino definisce nel suo Diario «imballaggi mediocri, senza elenchi, cataloghi o indicazioni di sorta».

La vicenda delle casse di Montecassino è in realtà molto complessa e il “disordine” nella restituzione era funzionale alla volontà di Goering di far perdere le tracce di alcuni capolavori che avrebbe voluto aggiungere alla sua collezione privata.

L’Abbazia di Montecassino, insieme a quella di Cava dei Tirreni e al convento di Mercogliano, era stata individuata come ricovero delle opere del Museo Nazionale e della Pinacoteca di Napoli e di tutte le opere di pregio delle chiese e dei musei campani. A differenza degli altri due depositi, Montecassino fu drammaticamente investita dalla guerra, così i Tedeschi, assediati dagli Alleati, decisero di vuotare il deposito. L’intento dichiarato era quello di portare le opere verso il nord Italia, ma in realtà molte di quelle casse erano dirette in Germania. Alle ripetute richieste dei funzionari romani di conoscere la sorte dei capolavori campani si rispondeva in maniera evasiva.

L’indignazione per quella razzia vide la ferma mobilitazione degli ispettori delle Belle arti e del Vaticano. Intorno all’evento, si creò un movimento d’opinione, anche attraverso la stampa. I Tedeschi decisero allora di restituire le opere, trattenendone in realtà una buona parte, che fu recuperata solo dopo la guerra. Così, il 4 gennaio, «a Roma andava in scena a Piazza Venezia la solenne cerimonia di riconsegna delle casse di Montecassino…di fronte a tutta la Divisione Goering schierata per ricevere il richiesto omaggio», come scrive Simona Rinaldi nel suo articolo L’attività della Direzione generale delle arti nella città aperta di Roma. I Tedeschi si dichiaravano infatti i salvatori delle opere di Cassino, impegnati nella nobile missione di salvare i capolavori campani dall’aggressione alleata, per riconsegnarli allo Stato italiano.

In realtà, delle 185 casse partite dall’abbazia cassinese, solo 172 furono restituite ai funzionari italiani. Oltre alla Danae di Tiziano, particolarmente apprezzata da Goering, mancavano dipinti di Sebastiano del Piombo, del Parmigianino, di Brueghel e capolavori riemersi dagli scavi di Pompei, come l’Apollo Citaredo e l’Ermes a riposo, insieme al ricchissimo tesoro delle oreficerie pompeiane.

«Solo nei primissimi giorni della liberazione di Roma, ripresi i contatti con le direzioni dei musei napoletani, ci si accorse di quel che mancava: era una perdita enorme», come commenta Luca Ciancabilla in La guerra contro l’arte.

In quel 4 gennaio del ’44, anche Lavagnino presenziò alla “cerimonia di riconsegna”, con l’incarico di occuparsi delle casse contenenti le opere della Pinacoteca di Napoli e della Mostra d’Oltremare. In accordo con Vannutelli, decise di concedersi una “pausa estetica” in quelle assurde giornate, allestendo una piccola, breve mostra di alcuni capolavori. Nel suo Diario, afferma: «Per dar piacere e soddisfazione a qualche amico storico dell’arte, s’è pensato di tirar fuori ed esporre per qualche giorno, da giovedì 19 gennaio, in una sala di Palazzo Venezia, alcuni quadri provenienti dalle Marche e da Montecassino». La mostra, intitolata Dieci capolavori salvati dalla guerra, vide esposte opere di artisti della grandezza di Raffaello, Tiziano e Caravaggio: Lo sposalizio della Vergine, Amor sacro e Amor profano, La vocazione di San Matteo uscivano temporaneamente dai loro imballaggi per mostrarsi in tutto il loro splendore ad un piccolo pubblico selezionato di esperti ed estimatori d’arte. Dopo soli due giorni, l’esposizione venne rapidamente smantellata: era stata una breve parentesi di bellezza con la quale, forse, quei funzionari impegnati nel salvataggio dell’arte avevano voluto darsi coraggio e infondersi fiducia nel successo della loro impresa, che andava portata avanti ad ogni costo.

Intanto gli eventi precipitavano: dal ministro Biggini arrivava una formale ammonizione per aver portato via le opere dai depositi marchigiani senza alcuna autorizzazione e per di più senza alcuna autorità (Lavagnino e i suoi colleghi erano formalmente collocati a riposo), ma soprattutto c’era un’atmosfera agitata e confusa, gli occupanti tedeschi apparivano preoccupati e particolarmente irritabili: gli Alleati erano sbarcati ad Anzio e a Nettuno. In questa situazione di pericolosa incertezza, si lavorava infaticabilmente per depositare il numero maggiore possibile di casse in Vaticano, dove finalmente domenica 24 gennaio venne completato il trasferimento di tutte le opere d’arte raccolte a Palazzo Venezia.

Nei giorni seguenti, I Tedeschi erano meno ansiosi: l’avanzata degli Alleati sbarcati ad Anzio era stata contenuta e fermata sulle spiagge. La “liberazione” di Roma era sembrata vicinissima!

In questo tempo sospeso di trepida attesa degli eventi, gli eroi dell’arte erano preoccupati per le opere ancora depositate a Genazzano. Ancora una volta è Vannutelli a trovare incredibilmente mezzi e carburante; viene pianificato con cura il percorso: gli Alleati hanno occupato l’Appia e la Casilina, è necessario procedere in maniera tortuosa lungo strade secondarie. Finalmente, una volta a Genazzano, si assoldano sul posto dei ragazzi come trasportatori. Tutti lavorano alacremente per ore mentre la guerra si percepisce vicinissima, con il rombo degli aerei che sorvolano la zona e gli echi dei combattimenti nei pressi di Velletri.

La fatica e l’abnegazione di questi uomini suscitano ammirazione e tenerezza; il Diario di Lavagnino conferma una volta ancora la loro straordinaria forza di volontà ricordando che Vannutelli procede nel lavoro con «una scarpa e una pantofola per una cassa che gli è caduta sul piede a Sassocorvaro e non può stare in piedi a lungo».

Alla fine di gennaio, i ricoveri extra-urbani sono ormai vuoti e i capolavori dell’arte sono salvi, “fuori dalla guerra” in Vaticano.

4. Il Monastero di Montecassino prima dei bombardamenti (foto tratta da: E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1947)
5. Il Monastero di Montecassino dopo i bombardamenti (foto tratta da: E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1947)

Bibliografia essenziale:

L. Ciancabilla, La guerra contro l’arte. Dall’Associazione Nazionale per il Restauro dei Monumenti danneggiati dalla Guerra alla ricostruzione del patrimonio artistico in Italia, in Engramma, 61, 2008 (http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=2003)

A. Lavagnino, Un inverno 1943-1944, Sellerio editore, Palermo 2006.

E. Lavagnino, Diario 1943-1944, in R. Morselli (a cura di) Fuori dalla Guerra-Appendici, Mondadori, Milano 2010.

E. Lavagnino, Relazione al soprintendente alle Gallerie del Lazio, in R. Morselli (a cura di) Fuori dalla Guerra-Appendici, Mondadori, Milano 2010.

E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1947.

A. Melograni, Per non ricordare invano, il diario di Pasquale Rotondi e la corrispondenza con i colleghi delle soprintendenze e la Direzione Generale delle Arti (1940–1946), in Bollettino d’Arte, 27, VII serie, luglio-settembre 2015, pp. 115-200.

P. Monelli, Roma 1943, Giulio Einaudi editore, Torino 2020 (1945).

R. Morselli (a cura di), Fuori dalla guerra. Emilio Lavagnino e la salvaguardia delle opere d’arte del Lazio, Mondadori, Milano 2010.

S. Rinaldi, L’attività della Direzione Generale delle Arti nella città aperta di Roma, in Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, 60, III serie, XVIII, 2005, pp. 95-126.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Lidia Olivieri

Scritto in data: 25 luglio 2021

Le immagini, delle quali è indicata la fonte, sono inserite per puro scopo illustrativo e senza alcun fine di lucro.

Il presente contributo è un estratto della tesi intitolata “Capolavori in guerra. Le opere d’arte nell’Italia centrale durante la Seconda Guerra Mondiale”, discussa il 23.03.2021 (relatore: prof. Emanuele Bernardi) dalla dott.ssa Lidia Olivieri nell’ambito del corso di laurea triennale in Studi Storico-Artistici, Sapienza Università di Roma.

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