Capolavori salvati dalla guerra: l’impegno di Emilio Lavagnino, un Monuments Man italiano (parte 2)

I viaggi fra Lazio e dintorni di Roma

Lavagnino e Vannutelli avevano effettuato i loro viaggi “salvifici” a proprie spese e accumulando debiti con le ditte di trasporto e facchinaggio. Fecero allora pressioni presso il Ministro Biggini per ottenere almeno una parte del denaro promesso; telefonicamente, fu data assicurazione dell’imminente invio di tre milioni, che però non arrivarono mai. Alle difficoltà dell’impresa, che doveva concludersi in fretta, sotto le bombe, aggirando e “raggirando” la cupidigia tedesca, si aggiungevano le serie difficoltà derivanti dall’impossibilità di pagare mezzi, carburante e trasporti.

È questa la situazione in cui, fra l’inverno del ’43 e la primavera del ’44, si muove Lavagnino, spinto dalla responsabilità che si era assunto per la tutela artistica ad ogni costo e in ogni condizione. Niente lo ferma: riesce ad ottenere dai funzionari del Kunstschutz un permesso di circolazione per due settimane; ciò gli consente di riutilizzare la sua Topolino, che rimette in funzione chiedendo in prestito tre pneumatici a Palma Bucarelli e la batteria ad un amico. Finalmente l’auto si avvia, pronta per i tanti viaggi nei dintorni di Roma, fra chiese e antichi palazzi, alla ricerca delle opere d’arte ancora nelle loro sedi originarie.

Prima tappa: Sutri, il 16 febbraio; qui Lavagnino deve insistere con il vicario del vescovo perché le opere di pregio vengano spostate in luoghi protetti.

Rientrato a Roma, viene informato dalla sorella che alcuni suoi colleghi del Ministero sono stati arrestati. Decide allora di non restare a casa sua, a Monteverde, e si trasferisce a Palazzo Venezia. 

In condizioni sempre più difficili, il 25 febbraio, organizza un nuovo viaggio a Sutri, poi a Vetralla e a Caprarola dove, nel Palazzo Farnese, Palma Bucarelli ha nascosto le opere della Galleria Nazionale d’Arte Moderna che, una volta riportate a Roma, trovano riparo nella rampa elicoidale di Castel Sant’Angelo.

Le tappe successive in questa corsa al salvataggio delle opere d’arte sono Tivoli, Rieti e Fondi. In quest’ultima località, la giornata si rivela particolarmente difficile; Lavagnino, nel suo Diario, alla data dell’8 marzo, la introduce con queste parole: «L’impresa di Fondi è senza dubbio la più memorabile fra quelle finora da me compiute pel salvataggio delle opere d’arte del Lazio»e, più avanti, racconta: «Alle 10,30 circa abbiamo finito di lavorare a Santa Maria. Siamo letteralmente coperti di polvere e calcinacci che la pioggerella continua ha trasformato in una fanghiglia di cui sono impregnati i nostri vestiti. Lasciamo le tavole nella navata sinistra della chiesa e andiamo a San Pietro… rinunciamo alla speranza di avere la chiave per entrare nella cappella difesa dalla formidabile cancellata ove sono i quadri più importanti di Fondi: l’Antoniazzo e il Cristoforo Scacco».

I quadri di Antoniazzo e di Cristoforo Scacco sono infatti in una cappella protetta da una possente cancellata, di cui è stata invano cercata la chiave. Così si decide di scavalcare la grata irta di punte, “armati” solo di un martello, di un cacciavite e di un palo di ferro trovato fra le macerie. Con grande fatica, per tre ore, Lavagnino e i suoi collaboratori lavorano nella cappella: proteggono il colore applicando strisce di carta laddove mostra segni di distacco, tolgono i trittici dalle grappe di sostegno, li smontano e li fanno passare al di sopra delle punte della cancellata, reggendoli sulle braccia. Poi, cercano fra i calcinacci e recuperano altri oggetti d’arte, imballano tutto nelle casse e si riavviano verso Roma, diretti come sempre a Palazzo Venezia.

Nel mese di marzo, la situazione si fa ancora più drammatica, anche a livello personale. La figlia di Lavagnino, Alessandra, ricorda il giorno in cui, rientrando da scuola, seppe dalla portinaia che la sua casa era piena di Tedeschi e che sua zia, avvocatessa e attivista del Partito d’Azione, era stata portata in carcere. Allo storico dell’arte non vengono risparmiate nuove difficoltà e umiliazioni: i funzionari del Kunstschutz gli ricordano la sua “collocazione a riposo” e dichiarano di voler continuare la loro attività con i funzionari ministeriali effettivi.

Lavagnino comunque non si ferma e, insieme a Vannutelli, organizza un nuovo viaggio a Rieti, da cui preleva gli oggetti del museo e delle chiese, accatastati in municipio senza particolari accorgimenti di protezione.

Il 24 marzo si reca a Civita Castellana, Magliano Sabina e Orte, dove trovano la stazione completamente devastata. Il 30 marzo, raggiunge Sacrofano, Morlupo, Trevignano e Bracciano.

Si arriva al mese di maggio, il 6 arriva a Tuscania, dove torna il 12. Sotto gli sguardi sospettosi dei Tedeschi, di cui la cittadina è piena, riesce a caricare tutto quello che ritiene debba essere salvato.

È l’ultimo viaggio sulla Topolino con le gomme in prestito.

Nei viaggi “salvifici” di Lavagnino, Viterbo è una meta privilegiata; la ragione di tanto interesse era la preoccupazione per gli affreschi e gli arredi scultorei lasciati senza protezione.

Insieme a Vannutelli e, in accordo con il vescovo e con il direttore del Museo civico, Lavagnino si attivò per il trasferimento in un locale del Capitolo del Duomo di tutti i quadri rimasti nel museo e nelle chiese cittadine. Queste opere, poste al riparo, non subirono danni. Diversa fu la sorte degli affreschi di Lorenzo da Viterbo, il cui Sposalizio della Vergine andò quasi totalmente distrutto, nonostante i reiterati appelli di Lavagnino per la costruzione di un muro di protezione. Queste continue sollecitazioni alla messa in sicurezza degli affreschi della cappella Mezzatosta in Santa Maria della Verità sono sottolineate nella sua Relazione con accenti di grande amarezza: «…durante tutti gli altri miei passaggi a Viterbo avvenuti nello stesso mese di febbraio e nei successivi non ho mai mancato di richiamare l’attenzione delle autorità competenti sulla necessità di costruire nella Cappella Mezzatosta almeno un muro paraschegge di fronte alla scena con lo Sposalizio della Vergine. Se tale muro… fosse stato effettivamente costruito oggi non dovremmo lamentare la più grave perdita di pittura murale del Rinascimento di tutto il Lazio, uno dei danni più gravi inferti al nostro patrimonio artistico dalla guerra».

In quel febbraio del ’44, Lavagnino insisteva anche per mettere in salvo quanto restava delle tombe papali della chiesa di San Francesco, già colpita da un bombardamento, riuscendo a portare a Roma fuori dalla guerra le sue opere più importanti: due dipinti di Sebastiano del Piombo, uno di Girolamo da Cremona ed uno di Antoniazzo Romano.

I frequenti viaggi e le preoccupazioni di Lavagnino per Viterbo si legano alla particolare situazione della città sottoposta pesantemente al fuoco dei bombardamenti. Una prima incursione ci fu fra il 15 e il 16 agosto ’43 in una notte particolarmente buia per un’eclissi di luna. Il rombo dei numerosi aerei che sorvolavano la città colse di sorpresa gli abitanti della cittadina che si stupirono ancor di più della pronta e violenta reazione tedesca; essi infatti pensavano che, in quel raid aereo, Viterbo fosse stata un obiettivo “casuale”. In realtà, i Viterbesi ignoravano quello che gli Alleati invece sapevano: in città c’erano depositi di munizioni per la capitale e un aeroporto militare. A questo, si aggiungevano un deposito di armi chimiche presso il lago di Vico, un campo di concentramento per 4.000 prigionieri a Vetralla, l’importante snodo ferroviario e stradale che collegava Roma con il Nord e soprattutto la collocazione del quartier generale di Kesserling a Villa Lante nella frazione di Bagnaia. Viterbo dunque, lungi dall’essere una tranquilla cittadina ai margini della guerra, era un importante obiettivo militare. Di questo non voleva rendersi conto il commissario prefettizio insediato dopo l’8 settembre che non si preoccupò di predisporre nessun tipo di protezione, attivandosi piuttosto per ottenere alcune opere ancora al museo civico come arredi del suo ufficio.

Lavagnino e i suoi collaboratori, con la consueta tenacia, cercarono di compensare tanta ignavia e si impegnarono con coraggio e decisione per salvare il salvabile, incuranti dei rischi che correvano. Così, proprio in occasione della visita alla chiesa di San Francesco, l’8 febbraio, vennero investiti da un bombardamento.

Fortunosamente completarono il carico e si avviarono verso Caprarola, dove li attendeva Palma Bucarelli, per tornare a Roma insieme a loro con alcune opere della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e con le casse delle opere di Antonello da Messina del Gabinetto del Restauro.

Il Diario di Lavagnino si conclude il 14 maggio con un’annotazione relativa al viaggio programmato alla volta di Monte San Biagio, annullato perché la località era già stata raggiunta dagli Alleati: la liberazione di Roma era ormai questione di giorni!

I viaggi salvifici di Lavagnino erano ormai finiti, ma egli continuò ad occuparsi della tutela delle opere d’arte senza risparmio di tempo e di energie. Già nel ’44, si attivò per la fondazione dell’Associazione nazionale per il restauro dei monumenti italiani danneggiati dalla guerra con la finalità di recuperare fondi per restituire dignità e bellezza alle opere colpite.

Animato dalla fondata preoccupazione che nell’Italia post-bellica il restauro delle opere d’arte potesse non essere avvertito come una priorità, organizzò mostre e conferenze nell’intento di creare un movimento d’opinione orientato verso la tutela del patrimonio artistico. In questo senso, deve leggersi l’allestimento della Mostra d’arte italiana a Palazzo Venezia nel ’45, la prima iniziativa culturale del dopoguerra. Nella stessa direzione, va la pubblicazione in inglese e in italiano del volume Cinquanta monumenti danneggiati dalla guerra e l’articolo Restauro dei monumenti danneggiati dalla guerra pubblicato su La Nuova Europa, dove chiamava a raccolta gli intellettuali italiani per sensibilizzarli sulla necessità di salvare le opere d’arte, definite “vittime veramente innocenti della guerra”.

Negli anni successivi si dedicò con il solito, infaticabile impegno all’attività di ricerca, alle pubblicazioni e sempre alla promozione della cultura intesa come sentimento condiviso di amore per il bello. Per questo, fu instancabile nell’organizzazione di mostre, nella riorganizzazione dei vecchi musei e nell’allestimento di nuovi spazi espositivi anche nei piccoli centri.

Questa idea di “cultura partecipata” ne fa un eroe dell’arte illuminato, lontanissimo dall’idea della chiusura nella turris eburnea dell’élite specialistica e, al contrario, proteso nello sforzo di avvicinare la bellezza alla gente e la gente alla bellezza.

6. Viterbo-Santa Maria della Verità: crollo della facciata dopo i bombardamenti (foto tratta da: E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1947)
7. Viterbo-Santa Maria della Verità: lavori di ricostruzione del chiostro (foto tratta da: E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1947)
8. Viterbo-Santa Maria della Verità: l’affresco di Lorenzo da Viterbo lacerato dalle esplosioni (foto tratta da: E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1947)
9. Viterbo-Santa Maria della Verità: frammenti dell’affresco di Lorenzo da Viterbo recuperati e fissati su una speciale preparazione (foto tratta da: E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1947)
10. Viterbo-Santa Maria della Verità: frammenti dell’affresco di Lorenzo da Viterbo reintegrati al termine dei lavori di restauro (foto tratta da: E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1947)

Bibliografia essenziale:

L. Ciancabilla, La guerra contro l’arte. Dall’Associazione Nazionale per il Restauro dei Monumenti danneggiati dalla Guerra alla ricostruzione del patrimonio artistico in Italia, in Engramma, 61, 2008 (http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=2003)

A. Lavagnino, Un inverno 1943-1944, Sellerio editore, Palermo 2006.

E. Lavagnino, Diario 1943-1944, in R. Morselli (a cura di) Fuori dalla Guerra-Appendici, Mondadori, Milano 2010.

E. Lavagnino, Relazione al soprintendente alle Gallerie del Lazio, in R. Morselli (a cura di) Fuori dalla Guerra-Appendici, Mondadori, Milano 2010.

E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1947.

A. Melograni, Per non ricordare invano, il diario di Pasquale Rotondi e la corrispondenza con i colleghi delle soprintendenze e la Direzione Generale delle Arti (1940–1946), in Bollettino d’Arte, 27, VII serie, luglio-settembre 2015, pp. 115-200.

P. Monelli, Roma 1943, Giulio Einaudi editore, Torino 2020 (1945).

R. Morselli (a cura di), Fuori dalla guerra. Emilio Lavagnino e la salvaguardia delle opere d’arte del Lazio, Mondadori, Milano 2010.

S. Rinaldi, L’attività della Direzione Generale delle Arti nella città aperta di Roma, in Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, 60, III serie, XVIII, 2005, pp. 95-126.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Lidia Olivieri

Scritto in data: 28 luglio 2021

Il contributo, completo delle parti 1 e 2, è scaricabile in formato pdf al seguente link.

Le immagini, delle quali è indicata la fonte, sono inserite per puro scopo illustrativo e senza alcun fine di lucro.

Il presente contributo è un estratto della tesi intitolata “Capolavori in guerra. Le opere d’arte nell’Italia centrale durante la Seconda Guerra Mondiale”, discussa il 23.03.2021 (relatore: prof. Emanuele Bernardi) dalla dott.ssa Lidia Olivieri nell’ambito del corso di laurea triennale in Studi Storico-Artistici, Sapienza Università di Roma.

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