Il reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato

Il presente contributo è dedicato al commento del reato di «Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato», alla differenza che intercorre tra questa fattispecie e quella di furto prevista nel nostro Codice Penale, e infine, alle diverse, relative conseguenze esistenti tra le due fattispecie sul piano repressivo-processuale.

Iniziamo col dire che il reato di «Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato» è una norma penale speciale, prevista all’art. 176 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004 «Codice dei beni culturali e del paesaggio».

Se un comportamento costituente reato è previsto e sanzionato da una norma particolare, a quel comportamento deve essere applicata quella legge speciale in virtù del criterio di specialità, secondo il quale «lex specialis derogat generali», la legge speciale deroga a quella generale.

Sembra una banalità, ma in realtà si vuol precisare che il criterio di specialità mira a risolvere le cosiddette antinomie dell’ordinamento, cioè quelle situazioni in cui il giudice, chiamato a risolvere una controversia che risulta disciplinata da diverse disposizioni normative tra loro in conflitto, deve scegliere quale di esse applicare; ed ecco, allora, che lo stesso ordinamento fornisce la chiave di volta, obbligando l’interprete ad applicare la disposizione che disciplina in modo specifico quel caso.

Il criterio di specialità trova propria applicazione nell’ambito della tutela dei beni cultuali e del paesaggio. Per comprendere meglio questa particolare predisposizione dell’ordinamento, prendiamo come esempio il reato di furto, previsto dal nostro codice penale, e confrontiamolo con il reato di impossessamento illecito di beni culturali dello Stato, contemplato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Recita l’art. 624, c.p.:

«Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito…».

La norma in esame tutela il patrimonio della vittima del reato.
Per la sussistenza del reato, è richiesto che il soggetto attivo prima sottragga e poi si impossessi della cosa altrui. In altri termini, il soggetto attivo, dopo aver sottratto (senza violenza alla persona, nel qual caso si incorrerebbe nel più grave reato di rapina, art. 628, c.p.) la cosa mobile altrui, se ne impossessa, ossia si comporta in relazione ad essa come se ne fosse il proprietario: ne acquista, perciò, la piena disponibilità, escludendo altri dall’uso. La sottrazione implica, infatti, l’impossibilità da parte del detentore di disporre della cosa.

Inoltre, è necessario che l’agente tragga dal fatto un profitto per sé stesso o per altri: è la cosiddetta dimensione psicologica del reato, cioè del dolo e, nel caso in questione, è richiesto il dolo specifico. Ciò significa che l’autore del furto deve aver agito al fine specifico di trarne profitto per sé o per altri.

In assenza di uno solo di questi elementi non vi è reato di furto (la questione è molto più complessa, ma qui, per brevità, l’abbiamo resa ai minimi termini).

L’art. 624, c.p. punisce la maggior parte delle tipologie di furto (eccezioni sono contemplate perlopiù come aggravanti del furto, ai sensi dell’art. 625, c.p., quale per esempio l’abigeato), e perciò è una fattispecie penale generale.

Consideriamo ora il reato di «Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato». Recita l’art. 176, D.Lgs.vo n. 42 del 2004:

«Chiunque si impossessa di beni culturali indicati nell’articolo 10 appartenenti allo Stato ai sensi dell’articolo 91 è punito …».

Si notano subito alcune nette differenze. Intanto il bene giuridico protetto dalla norma consiste nella tutela (sarebbe il caso di dire conservazione) – in particolare – dei beni culturali indicati all’art. 10 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004.

Deve, quindi, trattarsi di tutti quei beni (ritenuti pubblici) che sono indicati dettagliatamente all’art. 10 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004, «che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico» (di cui in un precedente intervento si è già ampiamente discusso).

Ma non basta perché, per la sussistenza del reato in esame, occorre che questi stessi beni debbono appartenere allo Stato, ai sensi dell’art. 91 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004.

Abbiamo già visto come, ai sensi dell’art. 91 del citato decreto, i beni culturali elencati all’art. 10 che risultano situati nel sottosuolo e/o sui fondali marini appartengano ope legis allo Stato, e ne abbiamo spiegato le ragioni: tali beni, in virtù del fatto che si trovano nel sottosuolo o nei fondali marini, sono di natura archeologica.

Ricapitolando, quindi, la fattispecie in esame ricorre quando il soggetto si impossessa di beni culturali dello Stato sotterrati o immersi nei fondali marini. Si tratta, in sostanza, del cosiddetto «furto archeologico».

Come si vede, rispetto al reato di furto previsto dal codice penale, non è richiesta un’azione sottrattiva della cosa, né è richiesto il dolo specifico (profitto per sé o per altri).

Il soggetto risponde del reato senza che egli compia un’azione di sottrazione del bene, perché il bene non si trova nella detenzione fisica di alcun soggetto (per legge abbiamo detto che appartiene allo Stato), né che compia il fatto per perseguire un proprio altrui profitto. Il motivo di tale scelta normativa è presto detto.

Il legislatore, prevedendo per la sussistenza del reato in esame la condotta di solo impossessamento e senza il dolo specifico (il fine del profitto), ha voluto rendere più semplice l’accertamento delle relative responsabilità penali, in quanto la tutela – e la conservazione – del bene culturale appartenente allo Stato postula un’importanza maggiore per il suo valore culturale e identitario rispetto al furto di altri beni comuni.   

In sostanza, come si può intuire, per l’ordinamento non riveste lo stesso significato se l’oggetto materiale del furto è un’anfora greco-romana piuttosto che una autovettura, per quanto odioso sia per la persona che ne subisce il furto. Apprestare, perciò, una tutela maggiore, prevedendo una condotta minima per la sussistenza del reato, appare la scelta più adeguata.

La disposizione così formulata ha però conseguenze pratiche sul piano repressivo-processuale, che, a ben vedere, presentano i caratteri di un paradosso, che finiscono per vanificare proprio ciò che la norma intende tutelare: la conservazione dei beni culturali. Vediamone i motivi.

È notorio che il furto archeologico sia una pratica illecita commessa dai cosiddetti «tombaroli», ossia soggetti che nottetempo usano recarsi in aree archeologiche alla ricerca di tombe dalle quali, attraverso l’uso di metal detector, estraggono corredi funerari, monete, anfore ed altri reperti.

Se gli operatori di polizia dovessero cogliere nella flagranza di reato gli autori e contestare loro il furto previsto dal codice penale (art. 624 e art. 625) nella forma aggravata (perché il fatto è stato realizzato con violenza sulle cose in quanto le tombe sono letteralmente devastate e le lastre di copertura vengono rotte attraverso spilloni e picconi), tecnicamente dovrebbero procedere all’arresto obbligatorio dei responsabili, ai sensi dell’art. 380, c.p.p. Ma non è così.

Gli operatori di polizia e l’Autorità Giudiziaria sono tenuti ad applicare la norma speciale in virtù del criterio sopra menzionato e in particolare la norma contemplata all’art. 176 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004, per la quale il codice di procedura penale non riconosce il potere di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza dei responsabili, che si ritrovano semplicemente deferiti a piede libero.

Inoltre, poiché la norma in esame prevede una pena edittale fino a tre anni di reclusione oltre la multa, non è riconosciuto nemmeno il potere di procedere all’arresto facoltativo nella flagranza del reato, ai sensi dell’art. 381, c.p.p.

Ne consegue che l’applicazione della norma speciale finisce in realtà per svilire la tutela e la conservazione dei beni culturali (archeologici nella fattispecie) in quanto, sia sul piano repressivo (arresto), sia su quello processuale (pena edittale) non vi è alcuna deterrenza che possa suscitare nell’animo dei criminali dediti alla commissione di tali illeciti l’idea di astenersi dal commetterli.

Si auspica un intervento del legislatore, che miri ad inserire tra le disposizioni dell’art. 380, c.p.p., quella che riconosce alla polizia giudiziaria di procedere obbligatoriamente all’arresto dei soggetti sorpresi nella flagranza del reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato.

Il reato in questione, peraltro, non pone solo il problema della privazione del reperto di cui ci si è illecitamente impossessati, ma determina quello che la comunità scientifica ha definito con il termine «decontestualizzazione». Il reperto trafugato viene asportato, quindi portato via dal luogo del ritrovamento, e commercializzato sul mercato illecito.

Ciò comporta che la comunità scientifica non possa indagare sulla storia di quel manufatto che potrà rivelarsi solo ed esclusivamente in rapporto al sito in cui è stato rinvenuto. Mancherà, perciò, un tassello fondamentale per ricostruire il passato della collettività che ha dimorato in quel determinato luogo.

È questo il vero danno arrecato dal reato di «Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato» e, quindi, a fronte di tali pericoli, noi riteniamo possa sacrificarsi quel poco di garantismo che verrebbe meno con l’introduzione nella norma procedurale della possibilità di procedere all’arresto nella flagranza del reato.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Leonardo Miucci

Scritto in data: 24 luglio 2020

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

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Pubblicato da Leonardo Miucci

Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, precedentemente in servizio presso la Sezione TPC di Siracusa