La conservazione e la valorizzazione dei beni dell’archeologia industriale

Nel solco della ormai affermata tendenza del Blog LaTpc di attenzionare al grande pubblico le tematiche relative alla conservazione, alla valorizzazione e quindi alla tutela dei beni culturali, e in continuità con l’ultimo articolo pubblicato da Cristina Cumbo sulla Fornace Veschi di Valle Aurelia, vogliamo con questo intervento mettere in risalto quali sono gli obblighi dei proprietari di tali particolari beni culturali e quali le loro responsabilità in caso di inadempienze. Ciò nell’ottica non certamente di puntare il dito verso amministratori o proprietari, ma nel tentativo, forse velleitario, di trasmettere un messaggio di civiltà, teso alla comprensione del nostro passato, affinché le nuove generazioni, si spera, possano agire con una maggiore coscienza civica per la tutela del bene comune.

Nell’immaginario collettivo dei non addetti ai lavori, ai quali questo Blog in particolare rivolge la propria attenzione, è insito il pensiero che gli edifici o i plessi che in un tempo remoto ospitavano complessi industriali non siano da ritenere beni culturali. Eppure il nostro Paese è pieno di insediamenti industriali che nei primi anni del ‘900 del secolo scorso rappresentavano il cuore pulsante dell’economia italiana, arrivando a produrre beni che venivano esportati anche all’estero, in alcuni casi anche nel nord Africa. Ma non solo questo. Le fabbriche di quel tempo, sebbene con tutte le negatività legate allo sfruttamento delle persone cui le discipline sociali e filosofiche hanno bene illustrato, rappresentavano tuttavia l’unica possibilità di sostentamento per le famiglie, e dentro di esse aveva luogo l’esistenza delle persone che vi lavoravano, con le loro angosce, i loro bisogni e le loro piccole felicità. Già solo per questo esse meriterebbero di essere tutelate, ora che quelle persone non ci sono più: tutelarle significa custodire il ricordo racchiuso in quelle mura ormai cadenti.

Passa il tempo, cambiano i modi di produzione e di quelle fabbriche, delle quali, come cattedrali nel deserto, non ne resta che lo scheletro, vieppiù ischeletrito, e anche il ricordo rischia di essere perduto per sempre.

Bene ha fatto Cristina Cumbo a evidenziare nel suo ultimo articolo lo stato di degrado nel quale versa la fornace Veschi di Valle Aurelia, e non è l’unico caso in Italia, purtroppo.

Ne citiamo un altro famoso alla cronaca siciliana.

Nel comune di Sampieri, vicino Scicli, in provincia di Ragusa, in area prospiciente al mare, inserita in un paesaggio mozzafiato, si erge la Fornace Penna, quasi un baluardo rappresentativo dei resti di quella che, agli inizi del ‘900 del secolo scorso, era un insediamento industriale dove venivano prodotti laterizi. Deve esservi nota perché nella fiction del Commissario Montalbano è denominata “la Mannara”, termine dispregiativo per indicare un luogo frequentato dalle prostitute (fonti giornalistiche riferiscono che nella realtà il luogo si presta veramente a tali attività).

Essa si estende su una pianta perfettamente rettangolare sulla cui sinistra svetta, guardando il mare, una bellissima canna fumaria, visibile dalla strada.

Qualche anno fa la Procura della Repubblica di Ragusa dispose il sequestro della struttura perché a rischio di crollo: già alcune parti di essa e la stessa canna fumaria erano state interessate da fenomeni di cedimento parziale e il pericolo era costituito anche dal fatto che il luogo era frequentato da turisti, evidentemente attratti dalla particolare bellezza architettonica del plesso e dal paesaggio circostante.

I due esempi qui citati – quello della fornace Veschi di Valle Aurelia di Roma e quello della fornace Penna di Sampieri – rappresentano un po’ la rinuncia a custodire il nostro passato.

Quando si interviene successivamente al verificarsi dello stato di degrado, di questi beni si cercano le responsabilità. È un po’ come il medico che interviene quando il malato versa ormai nella fase terminale della sua malattia: c’è poco da fare, il più delle volte quasi nulla.

Vediamo, quindi, quali sono o quali potrebbero essere queste responsabilità per cercare di capire perché è necessario intervenire sempre in via preventiva piuttosto che successivamente al verificarsi del danno che, a volte, diventa irreversibile.

Le fornaci dell’era contemporanea sono riconducibili a quella che viene definita “archeologia industriale”, disciplina all’interno della quale se ne ricomprendono altre, come l’economia, l’ingegneria, l’antropologia. Le strutture sono veri e propri beni monumentali e per tale motivo sottoposti a vincolo, che l’ente preposto alla tutela adotta a seguito dell’accertamento dell’interesse culturale ai sensi dell’art. 13 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs.vo n. 42 del 2004). Ne consegue che il proprietario rimane il responsabile della conservazione del bene ed è tenuto a garantirlo da eventuali ammaloramenti o distruzione, mentre la Soprintendenza è chiamata ad espletare le funzioni di tutela attraverso i controlli e l’adozione dei relativi provvedimenti.

Le responsabilità legate al pericolo di crollo, ovvero al crollo stesso della struttura monumentale e, quindi, alla inettitudine del proprietario del bene, costituiscono reato a seconda delle circostanze in cui queste si verificano. Anche in questo caso ricorreremo ad un esempio.

Tizio è proprietario di una struttura, un tempo adibita a fornace dove si producevano laterizi e, poiché riconosciuta di interesse particolarmente importante dal punto di vista culturale, è stata sottoposta a vincolo di tutela. Accade però che l’immobile, a causa dell’incuria del proprietario, subisce una serie di ammaloramenti alla struttura tale da rappresentare un concreto pericolo di crollo e per la incolumità delle persone. Successivamente il plesso, poi, implode crollando totalmente.

Da questo caso di scuola cercheremo ora di formulare le nostre considerazioni per capire di quale reato potrebbe rispondere il proprietario.

Nell’esempio vengono evidenziate due situazioni – quella del pericolo di crollo e quella del crollo effettivo – che sostanzialmente consistono in una omissione da parte del proprietario per la quale questi potrebbe, in astratto, rispondere del reato di “omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina”, ai sensi dell’art. 677 del codice penale. Analizziamo assieme questa fattispecie.

L’art. 677 del codice penale dispone: “Il proprietario di un edificio o di una costruzione che minacci rovina ovvero chi è per lui obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio o della costruzione, il quale omette di provvedere ai lavori necessari per rimuovere il pericolo, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire trecentomila a un milione ottocentomila”. La stessa sanzione si applica a chi, avendone l’obbligo, omette di rimuovere il pericolo cagionato dall’avvenuta rovina di un edificio o di una costruzione”.

Come è facile intuire dal dettato letterale della fattispecie, si tratta di un reato (contravvenzionale) di pura omissione: il proprietario deve aver omesso i lavori necessari per la rimozione del pericolo, oppure deve aver omesso di rimuovere il pericolo. In entrambi i casi il legislatore sanziona l’inerzia del proprietario. Il reato, in ragione della sola sanzione (pecuniaria) prevista, è di natura contravvenzionale ed è punibile sia a titolo di colpa, ossia per condotta negligente, imprudente o imperita, sia a titolo di dolo, cioè con coscienza e volontà. Invero, nella realtà, i fatti vengono sempre puniti a titolo di colpa perché la condotta del proprietario consiste sempre in una omissione di natura negligente.

Tuttavia, tenuto conto che il plesso in questione trattasi di un bene culturale o comunque di interesse culturale sottoposto a vincolo etnoantropologico, ne consegue che la condotta del proprietario potrebbe configurare anche l’ipotesi di danneggiamento del patrimonio culturale, fattispecie prevista all’art. 518-duodecies del codice penale, che così dispone: “Chiunque distrugge, disperde, deteriora, o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 2.500 a euro 15.000. Chiunque, fuori dei casi di al primo comma, deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui, ovvero pregiudizievole per la loro conservazione o integrità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 1.550 a euro 10.000.

Un’analisi letterale della fattispecie evidenzia che questa sembra potersi concretizzare solo attraverso un’azione – quindi un comportamento attivo – e non anche attraverso un’omissione, la quale ontologicamente consiste in un non fare negligente.

In realtà la condotta descritta nella disposizione può consistere tanto in un’azione quanto in un’omissione. Infatti la giurisprudenza e una parte della dottrina ammettono la possibilità di configurare il reato di danneggiamento anche quando la condotta consista nell’omettere per incuria l’esecuzione di lavori di manutenzione e restauro (Cfr. Cass. 12.5.1993 Cinelli).

L’operazione per così dire di “ricostruzione” della condotta omissiva, al fine della configurazione del reato in esame di natura commissiva, potrebbe ricavarsi attraverso l’art. 40 cpv del c.p., là dove viene sancito che “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

In sostanza, con tale disposizione, in dottrina definita “clausola di equivalenza”, l’interprete (il giudice) innesta la disposizione dell’art. 40 cpv. sull’art. 518-duodecies c.p. (Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento, e uso illecito di beni culturali o paesaggistici), ricavando così quasi una nuova fattispecie, detta omissiva impropria, incentrata sul mancato impedimento dell’evento (crollo dell’edificio, nell’esempio di cui sopra).

Ne discende che il proprietario, ovvero altro soggetto cui l’ordinamento riconosce diritti equiparabili ad esso a seconda delle circostanze, in quanto titolare di una “posizione di garanzia” – posizione che richiama intrinsecamente proprio quegli obblighi giuridici di impedire il verificarsi dell’evento –, è tenuto a porre in essere tutti quegli accorgimenti tesi ad impedire il verificarsi degli eventi descritti nella norma incriminatrice di cui all’art. 518-duodecies del codice penale e, in caso di sua omissione, egli potrebbe essere chiamato a rispondere del reato quant’anche questo preveda una condotta commissiva.

Viene da chiedersi, in conclusione, se in relazione a tali beni culturali sussistano anche obblighi in capo agli enti preposti alla loro tutela e conservazione. La risposta è affermativa.

Infatti il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs.vo n. 42 del 2004), all’art. 30, comma 3°, dispone che “i privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali sono tenuti a garantirne la conservazione” per poi aggiungere, all’art. 32, rubricato “Interventi conservativi imposti”, che “Il Ministero può imporre al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo gli interventi necessari per assicurare la conservazione dei beni culturali, ovvero provvedervi direttamente”.

Come si vede, il Codice sancisce veri e propri obblighi in capo al proprietario, il quale è tenuto a provvedere alla conservazione del bene eseguendo le opere necessarie, e la facoltà per l’ente preposto alla tutela di valutare anche un intervento diretto sul bene tramite provvedimenti d’imperio volti a garantirne la conservazione, fatta salva l’azione di rivalsa nei confronti dello stesso proprietario.

Nella realtà tutto ciò risulta di difficile attuazione perché, di fronte alla esigua dotazione delle risorse economiche della pubblica amministrazione, si aggiunge inoltre l’effettiva difficoltà di recuperare dai privati le somme impegnate per gli interventi attuati direttamente.

Bibliografia essenziale:

  • Codice penale e di procedura penale, edizione Dike giuridica, Roma 2023.
  • A. Crosetti, D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Torino 2011.
  • Giovanni Fiandaca, Enzo Musco, Diritto Penale, Parte generale, ul. ed.

Sitografia:

https://www.altalex.com/

https://www.beniculturali.it/carabinieritpc

https://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/

R. Sammito, Fornace Penna, il sequestro non ferma i turisti. Il comitato: «Venga espropriata e recuperata», su MeridioNews (21.05.2016): https://meridionews.it/fornace-penna-il-sequestro-non-ferma-i-turisti-il-comitato-venga-espropriata-e-recuperata/

Regione Sicilia, Scicli, l’ex Fornace Penna verrà espropriata (18.12.2019): https://www.regione.sicilia.it/la-regione-informa/scicli-l-ex-fornace-penna-verra-espropriata

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Leonardo Miucci

Scritto in data: 11 giugno 2023

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Pubblicato da Leonardo Miucci

Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, precedentemente in servizio presso la Sezione TPC di Siracusa