L’archeologia preventiva

Questo mese toccheremo un argomento apparentemente semplice ma che nella realtà incontra non poche difficoltà nella sua applicazione pratica. Si tratta dell’archeologia preventiva, ossia di quel complesso di attività che sono chiamati a svolgere, a titolo preventivo, soggetti privati e organi statali, individuati dalla legge, in presenza di specifici presupposti e finalizzate a tutelate le testimonianze archeologiche eventualmente presenti su un determinato sito.

Partiamo da alcune semplici domande: quali obblighi ha l’azienda erogatrice del metano che decide di eseguire alcuni lavori che prevedono il passaggio di una condotta nel sottosuolo, dove si è a conoscenza che possano esserci resti archeologici? E soprattutto: quali sono le azioni che gli organi preposti alla tutela potranno porre in essere per la salvaguardia e la conservazione del patrimonio archeologico?

Della questione si occupano essenzialmente due norme sancite nel nostro ordinamento, e in particolare:

–    il comma 4, dell’art. 28, D.Lgs.vo n. 42 del 2004, meglio noto come Codice dei Beni culturali e del paesaggio;

–    l’art. 25, D.Lgs.vo n. 50 del 2016, meglio conosciuto come Codice degli appalti.

Le due disposizioni devono leggersi necessariamente in combinato disposto.

Il comma 4 dell’art. 28 del Codice dei beni culturali e del paesaggio afferma che: «In caso di realizzazione di lavori pubblici ricadenti in aree di interesse archeologico, anche quando per esse non siano intervenute la verifica di cui all’articolo 12, comma 2, o la dichiarazione di cui all’articolo 13, il soprintendente può richiedere l’esecuzione di saggi archeologici preventivi sulle aree medesime a spese del committente».

I lavori devono, quindi, essere di natura pubblica e saranno perciò svolti in vista di un interesse pubblico (e la disposizione di una condotta del gas è un lavoro pubblico perché offre un servizio di pubblica utilità), a prescindere dai soggetti che li andranno a realizzare; inoltre, essi devono ricadere su un’area di interesse archeologico. Su quest’ultimo aspetto la prassi a volte ha dimostrato una certa difficoltà di applicazione della norma perché non sempre ancorata alla sua ratio.

Se la norma obbliga, come vedremo tra poco, i soggetti alla esecuzione di saggi preventivi, allora non vi è dubbio che la sua ratio debba essere individuata in un interesse di tutela del patrimonio archeologico: l’eventuale riscontro della esistenza di testimonianze archeologiche, permetterà infatti alla comunità scientifica di assumere i conseguenti provvedimenti per garantire la ricerca, lo studio e la tutela, secondo la legge.

È imprescindibile, quindi, determinare l’interesse archeologico del sito destinatario dei lavori. Ciò sarà possibile attraverso lo studio in loco del sito stesso, la letteratura scientifica sviluppatasi nel tempo e le ricerche ufficiali della Soprintendenza. Non occorre, lo dice la stessa disposizione, che sia intervenuta la dichiarazione o la verifica di interesse culturale.

Nella prassi sovente accade che il terreno oggetto dei lavori ricada in un’area che non ha direttamente alcun interesse archeologico, ma si pone in posizione limitrofa e dunque indiretta a quella che presenta testimonianze archeologiche.

Chi scrive non è un archeologo, ma, senza timore di smentita da parte degli addetti ai lavori, è scientificamente provato che le civiltà che ci hanno preceduto abbiano sempre esteso i propri interessi anche su aree geografiche limitrofe a quelle dove è noto stanziassero; di conseguenza, anche siti che potrebbero non essere conosciuti attraverso la letteratura per la presenza di testimonianze antiche, potrebbero essere in realtà di assoluto interesse archeologico e pertanto meritevoli di tutela e conservazione.

In presenza di lavori pubblici su aree di interesse archeologico, perciò, il Soprintendente può richiedere l’esecuzione di saggi preventivi con spese a carico del committente.

Non tragga in inganno il fatto che la disposizione, là dove letteralmente affermi una facoltà del Soprintendente, esima quest’ultimo a provvedere obbligatoriamente. La facoltà apparentemente assegnata dalla norma fa riferimento all’esito dell’indagine che preventivamente dovrà comunque essere svolta: in caso di insussistente interesse archeologico il Soprintendente può evitare che si eseguano scavi preventivi.

Come fa la Soprintendenza ad esprimersi al riguardo?

Ecco che qui interviene l’art. 25 del Codice degli appalti, che, in questa sede, per ragioni di spazio editoriale, ci limiteremo a citare soltanto il comma 1°, che così dispone: «Ai fini dell’applicazione dell’articolo 28, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, per le opere sottoposte all’applicazione delle disposizioni del presente codice, le stazioni appaltanti trasmettono al soprintendente territorialmente competente, prima dell’approvazione, copia del progetto di fattibilità dell’intervento o di uno stralcio di esso sufficiente ai fini archeologici, ivi compresi gli esiti delle indagini geologiche, e archeologiche preliminari, con particolare attenzione ai dati di archivio e bibliografici reperibili, all’esito delle ricognizioni volte all’osservazione dei terreni, alla lettura della geomorfologia del territorio, nonché, per le opere a rete, alle fotointerpretazioni».

La disposizione contiene una serie molto puntuale delle attività da svolgere e delle fasi della procedura, sebbene vada qui segnalato che le operazioni di scavo preventivo debbano essere eseguite sotto la direzione della Soprintendenza e nella prassi la committenza di fatto si avvale di professionisti archeologi, che, terminate le dovute indagini, hanno comunque l’obbligo di consegnare una relazione alla Soprintendenza.

La relazione archeologica che dovesse accertare la sussistenza dell’interesse archeologico impone al Soprintendente l’adozione di specifici provvedimenti di tutela, non ultimo il dovere di promuovere il procedimento amministrativo per la dichiarazione dell’interesse archeologico dell’area e quindi la sua sottoposizione a tutela secondo le norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Infatti, il comma 11, dell’art. 25 del Codice degli appalti, così dispone: «Nelle ipotesi di cui al comma 9, lettera c), (complessi la cui conservazione non può essere altrimenti assicurata che in forma contestualizzata mediante l’integrale mantenimento in sito) le prescrizioni sono incluse nei provvedimenti di assoggettamento a tutela dell’area interessata dai rinvenimenti e il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo avvia il procedimento di dichiarazione di cui agli articoli 12 e 13 del predetto codice dei beni culturali e del paesaggio».

Si ritiene opportuno effettuare delle ultime considerazioni.

Alcune regioni a statuto speciale – e tra queste sicuramente la Regione Siciliana – in passato avevano disciplinato (e probabilmente lo è tuttora) con normativa propria l’archeologia preventiva, disponendone l’applicazione anche per quei lavori privati in merito ai quali i titolari fruivano – secondo una soglia definita – di finanziamenti pubblici.

È di sicuro favore per la tutela del nostro patrimonio archeologico una siffatta scelta, che dimostra una autentica sensibilità delle istituzioni verso l’esigenza.

Devono, inoltre, registrarsi alcuni tentativi di modifica della normativa che a prima vista sembrerebbero porsi in contrasto con le norme appena commentate.

Si è a conoscenza, infatti, che un emendamento del decreto c.d. «Milleproroghe» imporrebbe l’archeologia preventiva solo per le aree già soggette a tutela, mentre negli altri casi sarebbe sufficiente un’autocertificazione del progettista abilitato.

Partendo dal fatto che le aree già sottoposte a tutela (con provvedimento dell’Autorità) in quanto tali logicamente non necessitano di ulteriore tutela, il problema si pone invece per tutte quelle aree che non risultano appunto espressamente tutelate ma che per ragioni storiche, antropologiche, culturali possono presentare un interesse culturale e pertanto vanno tutelate.

Va anche detto che nella realtà, normalmente, il tecnico progettista non è mai un archeologo, più probabilmente è un ingegnere o un architetto, con nessuna competenza in materia archeologica. Come può quindi egli determinare – attraverso una mera autocertificazione – se un’area presenta o meno un interesse archeologico? E soprattutto: quale tecnico progettista farebbe mai gli interessi pubblici, quando l’incarico gli è stato conferito da un privato ancorché interessato alla realizzazione di lavori di natura pubblica?

La prassi purtroppo insegna.

Chiudiamo questo intervento attraverso alcune domande che probabilmente non otterranno nessuna risposta, ma, giusto per precisare, è opportuno dire che la tutela del patrimonio culturale costituisce un dovere anzitutto morale e poi giuridico, che incombe su ciascuno di noi e, in quanto tale, non è in alcun modo possibile sacrificarlo nella prospettiva di interessi economico imprenditoriali.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Leonardo Miucci

Scritto in data: 23 giugno 2021

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

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Pubblicato da Leonardo Miucci

Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, precedentemente in servizio presso la Sezione TPC di Siracusa