Le caratteristiche di pregio e rarità nei beni numismatici

Nel nostro intervento di questo mese parleremo di un argomento che ha suscitato una serie di perplessità tra gli specialisti di settore, magistratura e operatori di polizia. Ci riferiamo alle caratteristiche di pregio e rarità che devono sussistere nei beni numismatici perché possano essere considerati beni culturali e quindi assoggettati alla legislazione in materia di tutela.

Prima di analizzare nel dettaglio le disposizioni che disciplinano la particolare materia, ci sembra utile porre le seguenti vicende tratte dalla realtà.

Poniamo il caso di Tizio, noto “tombarolo”, il quale, dopo aver scandagliato un terreno di un’area archeologica con il suo metal detector, trova alcune monete delle quali l’esame di expertise riferirà come databili all’VIII-V sec. a.C. e di origine greca. Tratto in giudizio, egli affermerà che in realtà le monete, pur provenienti da un remoto contesto storico, non presentano tuttavia i caratteri di pregio e rarità richiesti dalla norma e quindi non possono essere classificati quali beni culturali; pertanto, non gli può essere attribuita alcuna responsabilità.

Poniamo ancora il caso di Sempronio, noto collezionista, che durante una visita ad uno dei tanti mercatini dell’usato, acquista alcune monete che metterà poi in vendita attraverso una nota piattaforma online. Raggiunto da un decreto di perquisizione domiciliare, eseguito dalle forze dell’ordine, e sottoposte a sequestro le monete, si accerterà che esse siano databili attorno al II-III sec. d.C. Egli, di contro, affermerà in sua difesa che le monete sono molto diffuse sul mercato ed anche in questo caso verrà sottolineata la mancanza dei caratteri di pregio e rarità richiesti dalle disposizioni perché possano essere considerate beni culturali.

Partendo da questi due esempi, cercheremo ora di dare una spiegazione di come la legge si atteggia in materia, relativamente ai due requisiti di pregio e rarità, tralasciando l’analisi delle condotte di impossessamento delle monete da parte dei protagonisti delle due vicende, non essendo esse oggetto del presente intervento.

Dunque, si tratta di capire se e a quali condizioni è possibile affermare che le monete possano considerarsi beni culturali e quindi assoggettarle alle norme di tutela. A tal riguardo, la base di partenza è costituita dall’art. 10 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004 «Codice dei beni culturali e del paesaggio», laddove al comma 1° così recita: « Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico» e al comma 3°, lettera a), è affermato che «Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13… le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1». Inoltre, per la parte che in questa sede interessa, al comma 4°, lettera b), è esplicitato che «Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a) … le cose di interesse numismatico che, in rapporto all’epoca, alle tecniche e ai materiali di produzione, nonché al contesto di riferimento, abbiano carattere di rarità o di pregio».

Come si può notare, i reperti archeologici sono di per sé beni culturali, mentre, per ciò che concerne più precisamente i beni numismatici, perché essi possano essere classificati beni culturali, occorre che presentino il carattere di rarità o pregio.

La domanda, come si diceva un tempo, sorge spontanea: è sempre così?

Occorre precisare che il bene numismatico, quando non si dà prova di averlo acquisito in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909, prima disciplina organica della materia, è un reperto che per sua natura si trova nel sottosuolo o in ambiente marino, ne consegue che esso appartiene di diritto allo Stato per espressa disposizione normativa contenuta nell’art. 91 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004, che così recita: «Le cose indicate nell’articolo 10, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato».

Ma allora, se tutti i beni archeologici sono ritenuti beni culturali e se i beni numismatici sono beni archeologici, perché mai la norma fa riferimento ai caratteri di rarità e pregio affinché tali beni numismatici possano essere classificati beni culturali e quindi poterli assoggettare a tutela?

Semplicemente perché possono esserci situazioni che meritano una valutazione differente. Infatti, un conto è impossessarsi delle monete antiche attraverso uno scavo clandestino, altro conto è acquistarle in un mercatino dell’usato. Va da sé che le due situazioni, esattamente come negli esempi sopra riportati, meritano una valutazione diversa sul piano giuridico e della tutela, e ciò in quanto le monete acquistate al mercatino, ancorché di interesse storico, potrebbero essere effettivamente non di interesse culturale perché per esempio risultano assai diffuse. Ecco allora che, perché si possa attribuire la qualità di bene culturale a tali monete, occorre che esse abbiano un quid pluris costituito per l’appunto dai caratteri di rarità e pregio in relazione all’epoca, alle tecniche e ai materiali di produzione, nonché al contesto di riferimento in cui sono state prodotte.

È importante notare come sulla questione si è avuto un importante approdo della Corte di Cassazione con la sentenza n. 37861 del 28 luglio 2017, Sezione Penale III, della quale è utile riportarne alcuni passi salienti, emblematici di quanto finora detto: «Da tale complesso di disposizioni (si riferisce al contenuto degli artt. 10 e 91 del D.Lgs.vo n. 42 del 2004, per come sopra esposti, N.D.R.) deriva, per le cose di interesse numismatico, che le stesse devono essere considerate beni culturali, non solo quando abbiano carattere di rarità o di pregio, ai sensi dell’art. 10, comma 4, lettera b), ma anche quando, a prescindere dall’accertamento della presenza di tali caratteri, siano state ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, perché in tal caso esse appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato, trattandosi, per definizione, di «cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico o artistico». La disposizione di cui all’art. 10, comma 4, lettera b), contiene, infatti, una previsione residuale, che trova applicazione per quelle cose di interesse numismatico non ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini. Esistono, dunque, due categorie di cose di interesse numismatico che devono essere considerate beni culturali, il cui impossessamento è sanzionato penalmente …: a) le cose di interesse numismatico che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico che fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato perché in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini …; b) le cose di interesse numismatico che abbiano carattere di rarità o di pregio».

Ritornando, dunque, da dove si era partiti, va da sé che nella vicenda che ha visto coinvolto Tizio, impossessatosi delle monete clandestinamente scavate dal sottosuolo, non si impone nessun tipo di accertamento dei caratteri di rarità o pregio sui beni numismatici rinvenuti, trovando in questa ipotesi applicazione la norma di cui all’art. 91 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, la quale afferma la appartenenza di tali beni allo Stato. Diversamente, nel caso di Sempronio si impone necessariamente l’accertamento dei suddetti caratteri, trattandosi di monete liberamente acquistate per le quali trova, quindi, applicazione la norma residuale di cui all’art. 10, comma 4°, lettera b) del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

In chiusura sono doverose alcune considerazioni.

Il vero problema del ritrovamento dei beni numismatici, siano essi provenienti da scavo clandestino siano essi liberamente acquistati nei mercatini dell’usato, è costituito dal grave danno che subisce la ricerca scientifica. Si parla a tal riguardo di decontestualizzazione, ossia di quell’opera sciagurata, oltre che illecita, attraverso la quale i beni vengono materialmente portati al di fuori del luogo del loro ritrovamento, privando così la scienza di eseguire le opportune indagini del luogo stesso e delle civiltà che li hanno vissuti e abitati. D’altronde la Corte di Cassazione nella stessa sentenza sopra in commento si è preoccupata di affermarlo: «Tale interesse (archeologico, N.d.r.) sussiste … non per la rarità, o bellezza, né per il valore commerciale, ma per l’importanza che gli oggetti hanno per la ricostruzione del quadro della circolazione monetale in un certo lasso di tempo e in un determinato contesto: il loro impossessamento ha determinato, dunque, una cancellazione di dati scientifici, che reca un danno alla conoscenza storico-archeologica».

Quello della decontestualizzazione è un danno enorme, irreparabile, che tutti noi, nessuno escluso, subiamo in conseguenza dell’attacco alla nostra identità culturale.

Bibliografia e sitografia:

Codice dei beni culturali e del paesaggio (www.altalex.com)

Codice Civile, ed. 2022, Cedam Wolters Kluwer

Codice Penale, ed. 2022, Cedam Wolters Kluwer

Sentenza Cassazione III Sz. Pen., n. 49439 del 04/11/2009

Sentenza Cassazione IV Sz. Pen., n. 14792 del 22/03/2016

Sentenza Cassazione III Sz. Pen., n.37861 del 28/07/2017

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Leonardo Miucci

Scritto in data: 13 novembre 2022

Il contributo è scaricabile in pdf al seguente link.

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Pubblicato da Leonardo Miucci

Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, precedentemente in servizio presso la Sezione TPC di Siracusa