Varco la soglia della Biblioteca Nazionale Centrale a Castro Pretorio per seguire i cartelli che indicano “Lo sguardo dell’archeologo. Calvino mai visto”. Sono incuriosita e sono archeologa: direi un binomio perfetto per inoltrarsi nella prima stanza che ospita una parte della mostra distribuita in quell’immenso tempio del sapere dove l’odore di carta stampata ben si abbina al suono pacato delle pagine sfogliate dagli utenti seduti nelle numerose sale.
Tutto prende il via da un saggio di Calvino, “Lo sguardo dell’archeologo”: “Nel suo scavo l’archeologo rinviene utensili di cui ignora la destinazione, cocci di ceramica che non combaciano, giacimenti di altre ere da quella che s’aspettava di trovare lì: suo compito è descrivere pezzo per pezzo anche e soprattutto ciò che non riesce a finalizzare in una storia e in un uso, a ricostruire in una continuità e in un tutto.”
L’archeologo ha uno sguardo speciale, va oltre la superficie, non può fermarsi, deve scavare stratigraficamente (attenzione a non sterrare!) facendo lentamente emergere le tracce della storia che, pazientemente, dovrà ricostruire affidandosi ai suoi schemi, a quel matrix di Harris che, bene o male, tutti gli archeologi hanno amato e odiato a giorni alterni.
Quelle pagine autografe sembrano riempirsi di parole al solo sguardo: una penna stilografica, leggermente inclinata, scorre sul foglio bianco, tenuta saldamente da una mano maschile che ogni tanto si ferma, riflessiva, per proseguire e dare spazio alla creazione. Quella stessa mano tocca gli oggetti, ora posati in un angolo della vetrina, ma qualche anno fa inseriti all’interno di una libreria, oppure immobili su una scrivania in legno. Le dita sfogliano i libri, ne tastano la copertina ruvida, talvolta consumata dall’utilizzo. Ed ecco che, dalle foto in bianco e nero che ritraggono momenti di un passato non troppo distante, la figura di Italo Calvino è ancora lì, in mezzo a noi. Con lo sguardo pacato che nasconde un’immensa creatività, mille mondi già visti, come quelli delle Città Invisibili che gradualmente si sovrappongono, svaniscono, si delineano nuovamente con altre forme e palazzi, il grande autore sembra camminare in quel piccolo corridoio dove è allestita la mostra. Mi suggerisce di seguirlo, mentre sfiora i fogli dattiloscritti, ricordando la fedele macchina da scrivere, l’indice di Palomar con le correzioni in blu; sorride osservando le pagelle scolastiche e soprattutto gli schizzi sui libri di scuola dove compare un curioso Omero che chiede l’elemosina.
Lui, amante della letteratura, del disegno e dell’arte, mi racconta di essere figlio di scienziati: padre agronomo, madre botanica, entrambi docenti universitari, per non contare gli zii materni chimici, il fratello geologo. “Io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia”. Nel mio cuore lo capisco, so bene come ci si senta: quando tutti parlano di medicina, di ingegneria, di numeri e scienza, tu che sogni altri mondi, dipingendo con le parole o con i pennelli, che adori passeggiare in un museo osservando le tracce del passato, sei semplicemente quello “strano”, quello che “non si sa da chi abbia preso”. L’autore scuote le spalle, mi dice di non pensarci, che va bene così e chi ci ama realmente può solo apprezzarci.
Lo seguo ancora mentre si sofferma sulle tracce del vissuto come direttore dell’Unità, sui due proiettili sparati a Sanremo nel 1945 che sua madre custodiva, sulla tessera personale del PCI, sul libro di fiabe italiane. Sorride dolcemente mentre i ricordi si affollano. A poca distanza c’è anche il cavaliere di Calder che ricorda il celebre Cavaliere Inesistente. Tanti momenti sono legati a Cosimo e alla sua vita sugli alberi dai quali osservava il mondo da una diversa prospettiva e qualcuno ha deciso, in questo 2023, di esporre l’edizione inglese del Barone Rampante autografata a Vera Frank.
Infine i tarocchi, quelli che mai ci saremmo aspettati, ma che in realtà ispirarono l’autore nella scrittura del Castello dei Destini Incrociati. “Li tenevo in un cassetto della libreria. Poi un giorno ho deciso di disporli sulla scrivania”, mi racconta e così le idee hanno preso forma. Quelle stesse idee che, a un certo punto, si sono assemblate magicamente componendo anche i testi di alcuni canzoni.
Entro, stavolta solitaria, nella stanzetta in fondo, scostando le tende. Uno schermo proietta nostalgici ricordi di famiglia in bianco e nero, mentre sulla sinistra c’è uno schermo touch e la prima canzone che riesco a riprodurre si intitola “Canzone triste”: parla della quotidianità di due persone sposate, che si vedono per pochi istanti durante il giorno, il tempo di un bacio, presi dal lavoro e dagli impegni. Si dipinge una città in ripresa, lo smog che si mescola con la nebbia grigia, gli operai che in gruppo si dirigono verso la fabbrica, mentre quella donna attraversa le strade per andare al lavoro, nella mia mente quello di insegnante in una scuola dai banchi in legno, e poi a fare la spesa, con le buste di stoffa cariche, pensando già alla cena da cucinare. Calvino ci parla dell’Italia, quella del dopoguerra, ci fa tornare indietro sulle note di una canzone “triste”, ma estremamente reale.
Mentre gli utenti della biblioteca si affrettano a raggiungere le loro postazioni, mi muovo lentamente verso Spazi900, un “santuario” dedicato ai più grandi autori italiani del secolo scorso, dove la mostra prosegue. Nella prima teca si possono osservare alcuni libri inviati in dono a Calvino. Ci sono nomi famosi: Aldo Palazzeschi, Julio Cortàzar, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante. Questi volumi facevano parte della libreria dell’autore, quella della casa in Campo Marzio, ma anche del soggiorno torinese, cui appartiene la bella scrivania in legno. In Piemonte, infatti, Calvino lavorò per l’editore Einaudi.
Proseguendo ad esplorare storie e volti della letteratura italiana e, quindi, sorpassando Giorgio Vigolo, Mario Dell’Arco, Cesare Pavese, si giunge a Carlo Levi, scrittore e artista. In un angolo, sul cavalletto, si nota proprio il ritratto di Italo Calvino, delineato attraverso la stesura di grandi pennellate. Ho appena immaginato un piccolo studiolo simile a quello riprodotto, sulla sinistra una libreria, accanto alcuni quadri appesi alla parete e poi una sedia dove Italo Calvino posa per Carlo Levi. L’odore dei colori ad olio si mescola con quello della carta antica; macchie di colore schizzano un po’ sul pavimento, ma se non vengono via non fa niente, è arte pure quella. Calvino inforca gli occhiali dalla montatura nera. Gli sorge un sorriso perché è difficile rimanere immobile. “Ti danno un aspetto da professore”, immagino di sentire la voce di Levi mentre picchietta la tela con tocchi rapidi di colore. “Ma come sfondo inserisco del verde, dove la mente spazia, è libera, gioca, crea”.
Quello scenario svanisce, mentre apro le tende nere, percorro tutti gli ambienti di Spazi900, fino a tornare al principio, dirigendomi verso la biblioteca vera e propria. Entro nel suo cuore pulsante e, dopo aver camminato per qualche minuto, scorgo Marcovaldo accompagnato da alcuni estratti del libro: mi accolgono le belle illustrazioni colorate delle quali spicca quello stile un po’ fumettistico, opera di Sergio Tofano, facenti parte del Fondo Calvino e che non vennero pubblicate nel volume del 1961.
Cammino ancora a lungo, passando accanto alle sale lettura e agli antichi torchi esposti nel corridoio principale. Seguo le indicazioni, svolto di nuovo ed eccomi finalmente arrivata nella Sala Calvino, inaugurata nel luglio 2021, dopo un accordo siglato tra la Biblioteca Nazionale Centrale e Giovanna Calvino, figlia dello scrittore. L’addetta apre silenziosamente la porta a vetri, accogliendomi con un sorriso e, inaspettatamente, entro in una dimensione altra.
Si tratta di una vera e propria immersione nei libri, in quelle copertine dal dorso colorato, a volte sbiadito dal tempo e dall’usura. Quei libri che sono stati sfogliati e studiati da Italo Calvino, quando gli scaffali si trovavano nella casa di piazza Campo Marzio 5. È emozionante pensare che quei volumi hanno osservato l’esistenza dello scrittore, lo hanno accompagnato nei suoi lunghi pomeriggi di lettura e di scrittura, o anche semplicemente di relax. Sono silenziosi testimoni, quasi reperti, che non necessitano dell’archeologo per essere interpretati, così pieni di parole quali sono. Vorrei toccarli, sfogliarli, aspirarne l’odore che già immagino, ma al momento posso solo limitarmi a guardare.
Non sono solo storie e personaggi ad essere nascosti nelle librerie, bensì anche oggetti che narrano una vita quotidiana, fatta di viaggi, di amicizie e da una passione, almeno apparente, per l’etnico: una farfalla dalle ali blu è immobile accanto a una statuina indiana, vasi in ceramica e in vetro colorato si alternano ad alcune sculture lignee provenienti da paesi lontani ed esotici. Sulla destra si scorge il salotto, con il tavolo trasparente, in fondo un giradischi e un dettaglio: il golf in lana bianca poggiato alla sedia, quasi che Calvino avesse abbandonato la stanza giusto per un istante, quel tanto per andare a sorseggiare un caffè e sedersi nuovamente davanti alla macchina da scrivere verde, mentre la musica classica riempie il silenzio di sottofondo.
E ancora, sulla sinistra, osservo la scrivania in legno con una clessidra poggiata sul ripiano, forse a indicare che il tempo si è fermato a Parigi (link) e un’altra macchina da scrivere con il foglio inserito: anche lei attende una pressione sui tasti per ricominciare a funzionare e a creare altri racconti, romanzi, personaggi che hanno popolato una parte della nostra meravigliosa letteratura italiana.
Mi avvio verso l’uscita della Sala Calvino, voltandomi ancora per rimirarla: sono entrata in punta di piedi nei luoghi intimi che la famiglia Calvino ha voluto rendere accessibili al pubblico; pur non trovandomi realmente nella dimora di Campo Marzio, sono stata ospite a casa dello scrittore. Forse Italo Calvino non poteva immaginare che i suoi adorati libri e gli arredi che riempivano gli spazi domestici potessero diventare un patrimonio collettivo, ma sono certa che, ovunque si trovi ora, dalla sua nuova prospettiva simile a quella di Cosimo tra le verdi fronde, sorride osservando i visitatori scattare foto al suo salotto, oppure gli studiosi entrare e consultare i suoi testi.
Mi dispiace andare via, ma è giunto il momento di tornare a casa. Afferro la penna, ne avvicino la punta al libro delle firme e, nello spazio dedicato ai commenti non posso far altro che scrivere “Emozionante”.
È attraverso il libro, concepito come strumento di comunicazione tra lo scrittore e il lettore, che vogliamo spostare la prospettiva dalla mostra all’esperienza personale del singolo, di colui che per la prima volta legge un testo di Calvino.
Si tratta di una storia risalente a qualche anno fa, che nella mente del nostro lettore è vivida, attuale come se si trattasse di ieri. L’ambientazione? Una piccola libreria in cui la figura del libraio corrisponde ancora a quella persona che sa consigliare e che provvede alle reciproche presentazioni tra potenziale lettore e libro. Solo quando il legame è stato saldato risvegliando quel pizzico di curiosità nella persona che, emozionata, sfoglia le pagine ammaliata dal fruscio che producono, si può dire che il compito del libraio si sia concluso con successo. Dalla Sala Calvino della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma giungiamo, perciò, ad Avola, in provincia di Siracusa.
Lo sguardo del lettore: l’incontro con Italo Calvino
Doveva essere il mese di ottobre, più o meno dell’anno 2001, sì, doveva essere più o meno quell’anno, quando, quasi per caso, ammesso che le cose accadano per caso, “incontrai” Italo Calvino.
Era un pomeriggio uggioso, nell’aria si avvertiva già il sapore di un autunno incombente quando, con una certa timidezza, entrai nell’unica libreria – unica e vera libreria – di Avola, città della provincia aretusea, dove all’epoca mi ero trasferito da qualche anno e nella quale sarei rimasto per un bel po’ di tempo.
Era una libreria particolare, nella mia mente girovaga una specie di tempio per le persone che vedevo sostare al suo ingresso, tutte apparentemente dotte e affaccendate su cose serie e di cultura; sembrava, vista da fuori, una sorta di agorà all’interno della quale si tenevano studi e discussioni su chissà quali argomenti. Mi incuriosiva, ma al tempo stesso mi incuteva un certo timore, quello di non essere all’altezza delle questioni che vi si discutevano. Ma la curiosità prese il sopravvento e, quindi, quella volta entrai. Quella prima volta. Ne rimasi un po’ deluso: l’interno si rivelò un piccolo sgabuzzino stracolmo di libri, piuttosto che una vera e propria libreria, dove quattro persone di media corporatura stavano come sardine in una scatola. Poche le novità, tantissime le rarità letterarie di ogni specie: mai visti così tanti libri accatastati, che nell’immaginario collettivo medio potevano apparire buttati lì senza alcun ordine e, invece, per una mente intelligente e scrutatrice erano in perfetto disordine cosmico.
Per non parlare poi del libraio che la gestiva: un omone con grandi occhiali quadrati, capelli riversi su un lato e con un sorriso sornione, che lasciava, tuttavia, trasparire tutta la sua bontà d’animo.
Insomma fu lì, in quella specie di sgabuzzino adibito a libreria, nella libreria di Ciccio Urso – mai nome fu così attagliato alla persona – che, in un uggioso pomeriggio autunnale, mi fu presentato Italo Calvino, e da quel momento i suoi libri mi scelsero per sempre.
Non sono titolato a svolgere una critica letteraria del pensiero di Italo Calvino e, per ovviare al tentativo di apparire come un impostore, vorrei limitarmi a raccontarvi la mia esperienza narrativa vissuta attraverso la lettura dei libri di uno dei più grandi autori del Novecento e, in questo, spero che Italo Calvino possa avere pietà di me.
– Ah, quindi tu sei un carabiniere, un carabiniere che legge! Non che sia una rarità, peraltro ai miei tempi – io militante comunista e sessantottino – ecco, noi sapevamo di poterci fidare dei carabinieri, anche loro avevano fatto la Resistenza.
Con questo piglio, Ciccio Urso mi incalzò e io, tra l’imbarazzato, il curioso e il timido, non sapevo veramente cosa rispondere; indottrinato a tacere, mi limitai ad annuire con la testa.
– E quindi leggi. Sei nel posto giusto. Cosa leggi?
In quel periodo facevo letture molto disordinate e ricordo che, proprio quel giorno, ero alla ricerca di un romanzo che avrei messo da parte per la notte di Natale, quando tutti giocano a carte o mangiano fino all’inverosimile, io – come sempre da un po’ di anni a quella e a questa parte – mi sarei dedicato alla lettura di un romanzo perché la narrativa era la mia passione, era il mio mondo parallelo in cui rifugiarmi, soprattutto al Natale.
– Conosci Italo Calvino?
La domanda era ardua sotto due aspetti: da una parte, non conoscevo Calvino perché fino ad allora non avevo mai letto niente; dall’altra, avevo il terrore di fare una brutta figura ammettendo la mia ignoranza in un posto come quello. Fui però tolto dall’impasse: la sospensione temporale della mia mancata risposta dovette fargli capire che di Calvino non ne sapevo davvero nulla.
– Tieni, leggiti questo, poi mi dirai.
Così in modo perentorio mi disse, passandomi sotto il naso “Il barone rampante” nella edizione Einaudi, di cui ricordo tuttora la copertina.
Per essersi rifiutato di mangiare un piatto di lumache, Cosimo Piovasco, barone di Rondò, il 15 giugno del 1767 (dopo circa due secoli nascevo io) abbandonava la sua famiglia – i suoi genitori, la sorella Battista e il fratello minore Biagio – per rifugiarsi per sempre sugli alberi del bosco attiguo alla sua residenza, alla quale da quel momento – avrà avuto circa dodici anni il piccolo Cosimo – non farà mai più ritorno, neanche quando col passare degli anni verranno a mancare i suoi cari. Egli vivrà per sempre sugli alberi, da cui potrà assistere a tutti gli avvenimenti e anche agli sconvolgimenti emozionali e sentimentali, finanche l’amore potrà provare Cosimo, sebbene a suo modo e secondo circostanze cui la vita gli farà dono.
Leggevo “Il barone rampante” e immaginavo me stesso su quegli alberi provando addirittura il privilegio di guardare tutto e tutti dall’alto. Avvertivo, però, dentro di me pure un po’ di pena per il piccolo Cosimo, anche quando piccolo ormai non lo era più, perché immaginavo la tristezza che egli dovesse provare per l’assenza che implicava quella sua condizione di esule, ma forse era solo una specie di mia immedesimazione nel personaggio. Mentre lo leggevo, e più volte l’ho riletto, provavo a soffermarmi sul messaggio recondito che Calvino ha voluto consegnarci, e ci ho impiegato un bel po’ per sviluppare l’idea che l’autore de “Il barone rampante” voleva forse proporci una visione diversa della vita: una vita non omologata. Cosimo sceglie in modo originale di scappare di casa – quindi dagli agi aristocratici del tempo – rifugiandosi non in un luogo qualsiasi, bensì sugli alberi: vive e si muove esclusivamente grazie ad essi. Non scenderà mai più dagli alberi; mai più Cosimo toccherà terra. È lo stesso Cosimo a scegliere di vivere con “leggerezza”, per usare un altro termine molto caro a Calvino, quasi librandosi tra i rami, come farebbe Perseo con i suoi sandali alati, altro personaggio mitologico citato dallo stesso Calvino nel suo testamento culturale e morale contenuto ne “Le lezioni americane”. Sceglie Cosimo, infine, di vivere tragicamente la sua vita: consapevole della sua finitudine, opta per una vita autentica e non omologata.
“Il barone rampante” fu la prima opera che mi aprì gli occhi su Calvino e sulla sua scrittura, che sin da subito mi parve tutt’altro che facile, sebbene destasse in me un certo interesse. Fu così che volli saperne di più, e iniziai a leggere le altre opere. Toccò a “Il sentiero dei nidi di ragno”, il primo romanzo di Calvino in cui si racconta l’esperienza della Resistenza dopo la seconda guerra mondiale vissuta attraverso la vita e gli occhi del ragazzino Pin. Un antieroe – ecco un’altra forma di non omologazione: chi avrebbe raccontato la Resistenza con gli occhi di un ragazzino? – che vive le miserie umane degli adulti – tra cui quelle della sorella che si prostituisce – in un tristissimo contesto storico e sociale quale è stato quello post-bellico e della Resistenza in particolare. Calvino, d’altronde, ha partecipato personalmente e attivamente alla Resistenza, quindi parla con cognizione di causa e non meraviglierebbe se i fatti narrati nel libro fossero stati tratti dalla realtà.
Subito dopo toccò ad altri due grandi romanzi, ma meglio sarebbe definirli racconti: “Il visconte dimezzato” e “Il cavaliere inesistente”.
La storia del visconte dimezzato ha dell’inverosimile.
Il visconte Medardo di Terralba, il protagonista, nell’intraprendere volontariamente la battaglia contro i turchi, durante lo scontro viene colpito da una cannonata e diviso a metà. Con la metà che gli resta rientra nel suo castello e da quel momento in poi mette in atto una serie di malevoli comportamenti e decisioni che lo faranno apparire sempre ed esclusivamente votato al male, segno che la metà colpita dalla cannonata era quella invece portata al bene. Ci sarà una lotta finale che chiuderà il racconto, che ovviamente evito di menzionare, e che costituisce un po’ l’essenza del messaggio che Calvino ha voluto consegnarci: l’eterna lotta tra il bene e il male.
Se quella del visconte dimezzato è inverosimile, la storia de “Il cavaliere inesistente” è surreale.
In essa si raccontano le gesta del protagonista Agilulfo, un cavaliere dall’armatura vuota rappresentato solo attraverso la coscienza: praticamente inesistente per l’appunto. La vicenda è ambientata nel Medioevo, più precisamente all’epoca delle Crociate, e Agilulfo parte col suo scudiero Gurdulù, il quale, benché esistente, è invece privo di coscienza. Quindi, siamo in presenza di due personaggi antitetici e il tema del romanzo è quello della identità dell’uomo nel mondo contemporaneo, sebbene – come si diceva per “Il barone rampante” – con Calvino è sempre un problema definire esattamente il significato recondito delle sue opere.
Mentre leggevo questi ultimi due romanzi, come potevo fare a meno di notare un diretto riferimento alla psicoanalisi? L’eterna lotta tra il bene e il male, tra la coscienza e l’incoscienza (inconscio, irrazionalità), come potevano passare inosservati i messaggi contenuti nei due romanzi in chi, come il sottoscritto, da qualche tempo aveva iniziato a cibarsi di letture freudiane e letteratura affine?
Le tre opere – “Il barone rampante”, “Il visconte dimezzato” e “Il cavaliere inesistente” – fanno parte della trilogia “I nostri antenati”, che l’autore ha voluto mettere assieme perché evidentemente legate da un comune denominatore, quale è quello di narrare storie riferite, per l’appunto, a persone esistite secoli prima, ma anche e soprattutto per il messaggio recondito che le accomuna, quello cioè di mostrare in forma letteraria la condizione di spaesamento cui risulta affetto l’uomo contemporaneo.
Dunque i romanzi che ho qui citato costituiscono il mio iniziale viatico alla lettura di Italo Calvino, cui seguirono tutte le altre e quelle a contenuto fantastico-scientifico. Commetterei grave “reato” se non citassi le “Cosmicomiche” e “T con zero” – nelle quali l’autore parla della nascita dell’universo attraverso personaggi fantastici tra cui quello dall’impronunciabile nome “Qfwfq”. Leggendo queste storie, la mia mente non ha potuto fare a meno di pensare a Jorge Luis Borges, autore argentino della mitica raccolta “Aleph”; ho riscontrato una tale assonanza letteraria e, soprattutto, narrativa tra i due geni della letteratura che, a tratti, mi è sembrato quasi che le loro rispettive opere fossero state scritte a quattro mani.
Non sono mancate, inoltre, le letture delle opere a contenuto sociale tra le quali un posto d’onore deve essere attribuito a “Marcovaldo” – lettura più che mai oggi di assoluta attualità viste le tematiche legate all’ambiente. E poi ancora “Le città invisibili”, a mio avviso un autentico capolavoro, in cui l’autore, partendo da una narrazione favolistica legata alla figura di Marco Polo e a quella di Kublai Khan imperatore dei Tartari, narra a quest’ultimo l’aspetto e quindi la realtà di cinquantacinque città che ha visitato: una favola in chiave moderna, si direbbe.
Fu Cesare Pavese che definì Calvino “scoiattolo della penna” quando lesse per la prima volta “Il sentiero dei nidi di ragno”, dicendo che «L’astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, “diversa”».
La componente naturalistica non manca mai nella scrittura calviniana. Ciò è dovuto anche alle origini familiari – suo padre era un agronomo e sua madre una botanica –, e lui stesso avrebbe dovuto diventare uno scienziato avendo seguito il corso universitario di agraria. Poi però riuscì a scappare da quel mondo (come non notare un’assonanza con il barone Cosimo di Rondò?), rivelandosi la “pecora nera” della famiglia, avendo preferito gli studi umanistici e laureandosi in letteratura con una tesi su Conrad. Ma la componente naturalistica e con essa la visione pulviscolare della realtà gli rimase (provate a leggere “Gli amori difficili” oppure anche “Palomar” e scoprirete la maestria con la quale l’autore riesce a trasmettere ogni invisibile minuzia dei racconti) e l’ha trasposta in letteratura, coniando opere di grandissimo spessore.
Purtroppo, però, la vita gli è stata ingiusta facendolo morire giovane, giovane nella sua arte letteraria, e chissà quante altre opere avrebbe potuto ancora donarci.
L’ultima sua opera – “Le lezioni americane” – contiene cinque saggi cui lo scrittore avrebbe discusso in una lectio magistralis alla Harvard University, se non fosse stato colpito da un ictus qualche giorno prima della sua partenza, per poi morire il 19 settembre del 1985.
Cosa ci ha lasciato Italo Calvino?
“Le lezioni americane” costituiscono il suo testamento morale, una lezione così visionaria che letta al presente sembra essere stata appena scritta. Ecco quale dovrebbe essere la vera qualità dell’intellettuale e dello scrittore, quella di vedere oltre; essere preveggente, e Italo Calvino lo è stato: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Autori del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Cristina Cumbo e Leonardo Miucci
Scritto in data: 30 dicembre 2023
Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.
Foto di Cristina Cumbo su gentile concessione della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Ne è vietata la diffusione senza l’esplicito consenso dell’autrice e/o l’indicazione dei credits fotografici, nonché del link relativo al presente articolo.
Autori delle foto dei volumi: Cristina Cumbo e Leonardo Miucci. Ne è vietata la diffusione senza l’esplicito consenso degli autori e/o l’indicazione dei credits fotografici, nonché del link relativo al presente articolo.
Le immagini, delle quali è indicata la fonte, sono inserite per puro scopo illustrativo e senza alcun fine di lucro.
Informazioni:
La mostra “Lo sguardo dell’archeologo. Calvino mai visto” è visitabile, a ingresso gratuito, presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma fino al 26 gennaio 2024, secondo i seguenti orari:
Dal lunedì al giovedì 10.00-18.00; Venerdì 10.00-13.00
Sala Italo Calvino 8:30-13:30
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