Dalla devozione all’atto vandalico: riflessioni sui graffiti

Nomi incisi sull’intonaco di mura di cinta secolari, sui laterizi del Colosseo, lungo la falesia della Villa di Nerone ad Anzio, sui fichi d’India che si affacciano sul mare cristallino della Riserva dello Zingaro. E si potrebbe proseguire oltre con tantissimi esempi di quelli che, attualmente, consideriamo veri e propri atti vandalici.

Fichi d’India con graffiti alla Riserva dello Zingaro (foto di Emanuele Riccobene)

Graffiti, o incisioni, poco importa il termine utilizzato [1], basta che con uno strumento appuntito si vada a intaccare una superficie per lasciare traccia del proprio passaggio, o più comunemente per immortalare un amore, spesso passeggero, con due sigle e un cuore. Volontà di essere ricordati nei secoli? Azione romantica alla stregua di quei numerosi lucchetti, esito modaiolo di un celebre romanzo contemporaneo?

L’atto vandalico è attualmente punito penalmente. Lo Stato Italiano, per porre fine a un fenomeno che interessava in particolar modo i monumenti più visitati, ha adottato un metodo repressivo. Si invoca sempre la sensibilizzazione, la cultura per difendere la cultura, azioni preventive e educative, eppure ci sono comportamenti che sembrano radicati nell’essere umano, difficili da estirpare. Perché l’uomo tende ad emergere, ad affermarsi, a volersi differenziare da tutti gli altri e, soprattutto, vuole essere ricordato in virtù della sua caducità.

Roma, Graffiti sui muri lungo via di San Bonaventura (foto di Cristina Cumbo)

Il graffito che per noi è, dunque, un atto vandalico, punito secondo la legge, nell’antichità ha costellato i muri di tantissimi siti archeologici e si propone addirittura, per gli archeologi contemporanei, come preziosa fonte storica. Basti pensare, infatti, ai sepolcri dei martiri.

Il devoto che si recava in pellegrinaggio verso un santuario o una sepoltura, anche in catacomba, lasciava traccia di sé, a voler indicare che lui, da bravo fedele, era passato di lì, era stato a rendere omaggio al martire. E tante volte la traccia del passaggio di un pellegrino ha rivelato agli archeologi stessi la posizione della tomba santa che sembrava perduta.

Possiamo quasi osservare la scena. Un pellegrino, devoto venuto da lontano, con la sua bisaccia in spalla, un bastone da cammino, giunge finalmente presso il luogo in cui si dice che sia venerato il martire cui voleva rendere omaggio. Durante la notte ha riposato in una taverna nei paraggi, ma al mattino decide di riprendere il cammino nella campagna romana, lungo la via consolare. I sepolcri pagani si susseguono, allineati lungo la strada, ma la sepoltura che lui cerca non si trova in superficie. L’entrata è poco oltre quel gruppo di alberi, dove c’è una scala in discesa, già consumata in alcuni punti. Accende una torcia e, con fare reverenziale, entra. Da quando papa Damaso [2] ha deciso di avviare la monumentalizzazione delle tombe martiriali, è più semplice trovarle perché il percorso è riconoscibile, più curato, in alcuni punti i laterizi sono nuovi posti quasi a foderare gli angoli. I loculi si susseguono lungo le pareti, chiusi da lastre in terracotta o in marmo; qualcuno è semplice e presenta solo l’iscrizione dipinta o scolpita, qualcun altro invece è stato differenziato dall’inserimento di oggetti all’interno della malta di chiusura. Si notano campanellini, monete, conchiglie, da una parte c’è persino una bambolina in osso e quei bellissimi vetri dorati con le raffigurazioni di santi, di ritratti o con semplici formule, talvolta in greco. Il pellegrino prosegue senza abbandonare il corridoio principale, ma scorge numerosi diverticoli che si immergono nell’oscurità, degli arcosoli [3] e, poco più in là, l’ingresso ai cubicoli [4]. Costituiscono un altro mondo: l’uomo illumina leggermente le pareti spostando la torcia e nota un paradiso dipinto. Scene del Vecchio Testamento si alternano a quelle del Nuovo in un colorato puzzle che richiama messaggi salvifici. Starebbe lì a osservare il tutto per ore, tanta è la bellezza contenuta in quei sepolcri famigliari, ma l’aria impregnata dell’odore di putrefazione è quasi irrespirabile ed è bene sbrigarsi a raggiungere la sepoltura del martire.

Le tombe a terra si intensificano, i loculi alle pareti anche e questo significa che il pellegrino è quasi arrivato. E così è. Come gli era stato narrato, il sepolcro – illuminato da lucerne poggiate su alcune mensole – è stato valorizzato con marmi e con una grande iscrizione che riporta in breve la vita del martire, i cui caratteri sono speciali perché terminano con un segno che sembra una coda di rondine. Dev’essere questo il lavoro di Furio Dionisio Filocalo [5], il calligrafo di papa Damaso, una vera opera d’arte.

Il pellegrino estrae dalla borsa un pezzetto di stoffa, lo deposita sul sepolcro del martire, china il capo e recita una preghiera con tutta l’intensità che avverte nel proprio cuore. Poi con cura, riprende quella che è divenuta una reliquia ex contactu [6] e la inserisce in un sacchettino. Vuole lasciare traccia del proprio passaggio e crede che, scrivere il proprio nome accanto alla tomba venerata, possa avere un esito positivo quando verrà il suo turno di lasciare questo mondo terreno. Il martire potrà intercedere per lui. Sul bastone da cammino è infisso un chiodo, utile per appenderlo quando occorre. E con quello, avvicinandosi a una parete in cui nota – tra le ombre lanciate dalla torcia – un sovrapporsi di iscrizioni, incide il proprio nome. Il tufo si sbriciola un po’ e ha bisogno di ripetere più volte i segni; poco più in basso, decide di incidere anche quello del martire. Un ultimo sguardo a quel luogo di devozione e il pellegrino torna sui propri passi, diretto al prossimo sepolcro.

È così che vogliamo immaginare ciò che avveniva realmente in quei cimiteri sotterranei che tante fantasie hanno generato nel corso dei secoli, ma che in realtà erano e sono soltanto luoghi di sepoltura e di fede (non nascondigli per i cristiani durante le persecuzioni!!!).

Proprio un’incisione accanto alla tomba è stata, infatti, utile agli archeologi per individuare la sepoltura martiriale. È il caso della tomba del martire Panfilo, nella catacomba omonima. Ci troviamo a Roma, sulla via Salaria vetus, di preciso in via Giovanni Paisiello, 24. Si tratta di un complesso cimiteriale sotterraneo che si sviluppa su tre piani e, in quello più antico, venne deposto il martire Panfilo. Nel VI secolo, la sua tomba divenne meta di pellegrinaggio intensivo, come dimostrano appunto i numerosi graffiti sulle pareti prossime al suo sepolcro, identificato da Danilo Mazzoleni proprio grazie alla trascrizione di queste incisioni. La catacomba era stata riscoperta, infatti, nel 1920 da Enrico Josi, sorpreso dell’integrità di numerose tombe, che erano rimaste chiuse con numerosi oggetti ancora inseriti nella calce di chiusura dei loculi. L’archeologo, però, pur avendo individuato un sepolcro il cui muro era, appunto, ricoperto di graffiti non era riuscito a individuare nulla che richiamasse il martire eponimo del cimitero. Solo i rilievi sistematici avviati da Danilo Mazzoleni, Giuseppe Biamonte, Alessandra Loreti e Loretta Siniscalchi negli anni Novanta del secolo scorso diedero il risultato tanto sperato.

Un graffito ha, perciò, confermato la presenza di un martire, ma se oggi osassimo incidere il nostro nome o una frase di ringraziamento presso un santuario, come minimo incorreremmo in una multa e, nei casi più gravi, nella reclusione per danneggiamento; all’epoca, invece, era prassi comune, un po’ come il gesto di accendere una candela o un lumino presso un altare in chiesa.

Esistono casi ancora più intensivi, come quello della Memoria Apostolorum sull’Appia presso la catacomba di San Sebastiano (conosciuta anche con il toponimo ad catacumbas) dove sono presenti circa 500 graffiti! Per quale motivo? In quel luogo persisteva la tradizione del “ricordo” degli apostoli Pietro e Paolo, lì venerati il 29 giugno, forse perché i loro resti furono spostati temporaneamente (la questione è ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi).

Com’erano realizzati i graffiti? Lo possiamo ben immaginare: erano eseguiti rozzamente con mezzi rimediati, come chiodi o spille (tecnica a sgraffio). Di conseguenza le lettere, spesso capitali che componevano nomi o qualche invocazione, erano tremolanti, tanto da far pensare che gli autori fossero persone quasi analfabete, forse appartenenti a una fascia medio-bassa, tranne poche eccezioni della gerarchia ecclesiastica. In realtà ciò che bisogna considerare, oltre alla componente sociale di cui non possiamo essere certi, è la difficoltà di scrivere con uno strumento rimediato e su un supporto non destinato alla scrittura.

Altre informazioni deducibili sono quelle che si legano a una tradizione, ovvero quella del refrigerio sulla tomba dei martiri, quindi del banchetto funebre che, in questo caso, assume il valore di offerta votiva, di richiesta salvifica, di protezione; infine, ne ricaviamo la frequentazione di gruppi prevalentemente familiari oppure comunitari.

Inoltre, il graffito in sé non era una “scrittura pensata”, come invece potevano essere le epigrafi vere e proprie, ovvero quelle iscrizioni scolpite o dipinte su lastre in marmo o in terracotta, sepolcrali o celebrative. Il graffito dev’essere considerato – e, se ci riflettiamo, lo è ancora oggi – come “scrittura estemporanea”, improvvisata, pensata ed eseguita sul momento, quasi una manifestazione spontanea di un concetto espresso utilizzando un supporto già esistente che non era ideato per “accogliere” un’iscrizione, bensì per altri scopi, come può essere semplicemente un muro.

E il graffito era realizzato per essere letto da altri? Probabilmente no, era eseguito più per scopo personale/devozionale, che per far conoscere a qualcun altro il “messaggio” lasciato inscritto. Ne è dimostrazione il fatto che, in numerosi casi, i graffiti si sovrappongano tra loro come se in quel punto fosse consentito scrivere. Un graffito ne attirava automaticamente altri. Un fenomeno questo che, effettivamente, non è mai cambiato, se solo pensiamo ai writers che, molto spesso, si concentrano tutti sullo stesso muro per operare con le loro bombolette spray, talvolta creando numerosi strati di vernice. Emulazione o battaglie tra bande? Nel caso dei writers esistono motivazioni psicologiche e sociologiche più complesse che qui non affronteremo.

Sottolineiamo nuovamente: il graffito non può essere separato dal contesto. Essi sono strettamente legati ed è il motivo per cui l’esecuzione di un graffito all’interno di una cella di reclusione può essere totalmente differente rispetto a un graffito eseguito presso un santuario, o ancora per strada. Non si può generalizzare nello studio di questo fenomeno che merita, certamente, qualche riflessione a livello non solo storico, ma sociale.

Forse anche ai visitatori del Colosseo che hanno inciso il proprio nome sui laterizi non interessava che l’iscrizione fosse letta da altri, ma allo stesso modo degli autori dei graffiti antichi hanno espresso l’unica volontà di lasciare una traccia in un luogo importante, quasi fosse un sito di “pellegrinaggio”. È l’unicità del sito, quindi il contesto, a conferire il relativo valore al graffito che si propone, in ogni caso, come elemento comunicativo.

Una domanda ancora ci martella: ma nell’antichità era consentito eseguire tali graffiti? Probabilmente gli antichi non si ponevano il quesito perché ciò che oggi per noi è un bene culturale, per loro era un sito comune (si pensi ai muri di Pompei, oppure a quelli di una catacomba). Il concetto di “bene culturale” appartiene a noi contemporanei, perché è nella nostra cultura conservare il passato, valorizzarlo, rispettarlo. Eseguire graffiti, o anche iscrizioni dipinte, era una pratica comune, un modo di comunicare a seconda del contesto in cui ci si trovava.

Oggi abbiamo altre regole da rispettare, indirizzate soprattutto a mantenere il decoro e a tutelare il nostro patrimonio storico, artistico e naturale da attacchi che potrebbero rivelarsi intensivi, fino a provocarne l’irreparabile danneggiamento e a comprometterne la conservazione. Proviamo a pensare, per un attimo, se noi tutti nel visitare un monumento, lasciassimo traccia del nostro passaggio inciso nella muratura, scritto con pennarello indelebile o con vernice (non fa differenza). Il sito verrebbe alterato e irrimediabilmente danneggiato. Quel passato che, con tanta devozione abbiamo conservato per far sì che fosse tramandato alle prossime generazioni, si sbriciolerebbe e perderebbe la sua integrità. Per immortalare un momento oggi abbiamo altri mezzi, la fotografia in primis, che un tempo non esisteva. Sarà meglio, quindi, ricorrere a uno scatto ben eseguito, o ai tanti diffusi selfie con i nostri monumenti preferiti alle spalle, piuttosto che lasciare nomi, cuori e date incisi sulla loro superficie andando incontro a sanzioni e alla perdita di memoria futura.

Bibliografia essenziale:

C. Carletti, I graffiti dedicati ai Santi Pietro e Paolo presso le catacombe di S. Sebastiano sulla via Appia, su Gli scritti (29.06.2010): https://www.gliscritti.it/blog/entry/479

A. E. Felle, Alle origini del fenomeno devozionale cristiano in Occidente. Le inscriptiones parietariae ad memoriam Apostolorum, in A. Coscarella, P. De Santis (a cura di), Martiri, santi, patroni: per una archeologia della devozione. Atti del X Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, Università della Calabria, Aula Magna, 15-18 settembre 2010, Università della Calabria 2012, pp. 477-502.

A. E. Felle, Scritture esposte e graffiti. Alcune notte di riflessione, in D. Ferraiuolo (a cura di), La dimensione spaziale della scrittura esposta in età medievale. Discipline a confronto, Atti del Convegno di Studio, Napoli, 14-16 dicembre 2020, Spoleto 2022, pp. 1-14.

https://www.treccani.it/enciclopedia/furio-dionisio-filocalo/

D. Mazzoleni (a cura di), Novità epigrafiche della catacomba di Panfilo, in Epigrafi del Mondo Cristiano Antico, Roma 2002, pp. 97-106.

L. Miglio, C. Tedeschi, Per lo studio dei graffiti medievali. Caratteri, categorie, esempi, in P. Fioretti (a cura di), Storie di cultura scritta. Studi per Francesco Magistrale, Spoleto 2012, pp. 605-628.

L. Miucci, Le nuove disposizioni in materia di deturpamento di beni culturali, su La Tutela del Patrimonio Culturale – Blog (04.02.2024): https://latpc.altervista.org/le-nuove-disposizioni-in-materia-di-deturpamento-di-beni-culturali/

F. Reale, Graffiti vandalici dentro Santa Chiara su antiche tombe… accade da decenni…, su Diario napoletano. Vivere, sopravvivere, descrivere e raccontare Napoli (21.02.2015): https://diarionapoletano.wordpress.com/2015/02/21/graffiti-vandalici-dentro-santa-chiara-su-antiche-tombe-accade-da-decenni/

RomaToday, Il turista che incise il suo nome e quello della fidanzata al Colosseo adesso rischia il processo (17.07.2023): https://www.romatoday.it/cronaca/processo-turista-che-incise-nome-colosseo.html

C. Tedeschi, I graffiti, una fonte scritta trascurata, in D. Bianconi (a cura di), Storia della scrittura e altre storie, Supplemento n. 29 al “Bollettino dei Classici”, Accademia Nazionale dei Lincei 2014, pp. 363-381.

Abstract: In ancient times, graffiti was not considered vandalism, unlike today. Much depends by the context, the era, the history. This article intends to produce reflections starting from the devotional graffiti in the catacombs up to the actual engravings on monuments.

Keywords: graffiti; vandalism; devotion; catacombs; monuments; protection of cultural heritage

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Cristina Cumbo

Scritto in data: 1 aprile 2024

Foto di Cristina Cumbo e di Emanuele Riccobene. Ne è assolutamente vietata la diffusione senza l’esplicito consenso degli autori e/o l’indicazione dei credits fotografici, nonché del link relativo al presente articolo.

Le immagini, delle quali è indicata la fonte, sono inserite per puro scopo illustrativo e senza alcun fine di lucro.

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.


[1] Con il termine “graffito” intendiamo riferirci a iscrizioni eseguite con la tecnica dello sgraffio, non invece alle scritte realizzate con vernice spray, definite “writing”, “murales” o, tradotte in italiano, “graffiti”.

[2] Il pontificato di papa Damaso si colloca tra 366 e il 384 d.C. (= seconda metà del IV secolo d.C.).

[3] Tomba incassata nel muro e sormontata da una nicchia. L’intradosso, ovvero la superficie interna della nicchia, e la lunetta di fondo, ovvero la parete di fondo della sepoltura, possono essere dipinti.

[4] Letteralmente si tratta di un ambiente, di una camera. In tal caso di un sepolcro a camera, le cui pareti sono interessate da sepolture.

[5] https://www.treccani.it/enciclopedia/furio-dionisio-filocalo/

[6] Reliquia per contatto, ovvero un oggetto che venuto a contatto con un sepolcro venerato diventa reliquia esso stesso.

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Pubblicato da Cristina Cumbo

Archeologa e ricercatrice; Dottore di ricerca in Archeologia Cristiana; amministratrice, fondatrice e responsabile del blog #LaTPC, nonché della pagina Facebook "La Tutela del Patrimonio Culturale". Ha frequentato il primo corso di perfezionamento in tutela del patrimonio culturale in collaborazione con il Comando Carabinieri TPC presso l'Università di Roma Tre (2013) e il Master annuale di II livello in “Strumenti scientifici di supporto alla conoscenza e alla tutela del patrimonio culturale” attivo presso il medesimo ateneo (2019). Dal mese di gennaio 2022 al marzo 2024 ha collaborato con l'Institutum Carmelitanum di Roma conducendo ricerche su alcune chiese Carmelitane demolite e ricostruendone la storia. Attualmente è assegnista di ricerca presso l'ISPC - CNR, dove si occupa di analizzare storicamente il fenomeno del vandalismo sul patrimonio naturale e culturale in Italia per la redazione di linee guida funzionali alla mitigazione del rischio.