La confisca delle opere d’arte contraffatte

Con la ripresa dalla pausa estiva desideriamo aprire con un intervento che ha sempre destato non pochi problemi applicativi per i giuristi. Ci riferiamo all’istituto della confisca in generale e, per gli aspetti che in questa sede interessano, a quella applicata alle opere d’arte contraffatte.

Prima di passare in rassegna l’argomento, è opportuno premettere la seguente questione di fondo, tratta dalla realtà.

Tizio, allestitore e gallerista, pone in vendita un dipinto falsamente attribuito ad un noto artista, allo scopo di ricavarne profitto. Sequestrata l’opera ed instaurato il relativo procedimento penale per contraffazione di opera d’arte, in violazione dell’art. 518-quaterdecies, c.p., il giudice ne pronuncia tuttavia l’archiviazione per mancanza dell’elemento psicologico, perché Tizio al momento del fatto non era al corrente della contraffazione dell’opera d’arte. Egli, quindi, propone istanza per ottenerne la restituzione che gli viene, tuttavia, rigettata in quanto, malgrado l’archiviazione, il giudice dispone la confisca in via obbligatoria, in applicazione del comma 2°, art. 518-quaterdecies, c.p., che così recita: «È sempre ordinata la confisca degli esemplari contraffatti, alterati o riprodotti delle opere o degli oggetti indicati nel primo comma, salvo che si tratti di cose appartenenti a persone estranee al reato…» [1].

La questione introduce una domanda fondamentale: la confisca dell’opera d’arte contraffatta deve ritenersi sempre obbligatoria, anche in assenza di condanna del responsabile del reato?

In altri termini: se viene disposta l’archiviazione della posizione del soggetto perché non è stata dimostrata la sua responsabilità penale, il giudice è comunque tenuto a disporre la confisca del bene?

Prima di dare una risposta, occorre fare un breve cenno all’istituto in termini generali, precisandone la definizione, la natura giuridica e, per ultimo, la funzione.

La confisca è sostanzialmente un’espropriazione della cosa servita a commettere il reato, ovvero che ne costituisce il prezzo, il prodotto o il profitto [2], dal soggetto responsabile del reato stesso allo Stato, che ne diviene così proprietario ed è, pertanto, legittimato ad alienarlo o comunque a distruggerlo.

Normalmente essa è concepita dallo stesso Codice Penale nel quale è annoverata come una misura di sicurezza applicata alle cose servite a commettere il reato, sebbene non manchino orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che le conferiscono natura sanzionatoria di tipo accessorio, nel senso che la misura consegue (accede) alla condanna del responsabile del reato. Non essendo questa la sede per disquisire sui molteplici orientamenti, basti qui pensare che l’applicazione dell’istituto presuppone la pericolosità in sé della cosa stessa nella commissione di nuovi reati.

Lo spirito della confisca risiede, infatti, nello scongiurare il pericolo che la cosa, rimanendo nella disponibilità del soggetto, possa venire riutilizzata per commettere ulteriori e nuovi reati.

Vi sono, peraltro, alcune cose che sono intrinsecamente predisposte per tale reimpiego ed è, pertanto, logico e, in alcuni casi, obbligatorio che il giudice ne ordini la confisca. Si pensi, per esempio, alle armi utilizzate per compiere una rapina in banca.

Il problema, però, potrebbe porsi in relazione a tutte quelle cose che, non essendo intrinsecamente pericolose, non si prestano ad un loro uso per commettere nuovi reati.

Come vedremo tra poco, la questione è di fondamentale importanza per l’applicazione della confisca obbligatoria in merito al reato di contraffazione di opere d’arte.   

In termini generali il Codice Penale disciplina l’istituto all’art. 240, prevedendo due ipotesi di confisca, una facoltativa, che nella realtà rappresenta la norma, e una obbligatoria, applicata nei casi espressamente ivi previsti.

Vediamoli insieme.

In particolare, con riguardo alla confisca facoltativa, il comma 1° dell’art. 240, c.p., così dispone: «Nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto».

Dunque, in presenza dei richiesti presupposti (condanna del soggetto; la cosa deve costituire il prodotto o il profitto del reato), il giudice può disporre la confisca, in virtù di un’ampia facoltà di scelta fondata sulle circostanze e gravità del fatto, nonché sulla personalità del soggetto, elementi sui quali egli creerà il suo libero convincimento.

In riferimento, invece, alla confisca obbligatoria, il comma 2° dell’art. 240, c.p., così recita:

«È sempre ordinata la confisca: 1) delle cose che costituiscono il prezzo del reato; 1-bis) dei beni e degli strumenti informatici… che servirono per la commissione di specifici reati di natura telematica espressamente indicati nella disposizione; 2) delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato (per esempio: armi, stupefacenti, ecc…), anche se non è stata pronunciata condanna. Le disposizioni che precedono non si applicano se le cose appartengono a persona estranea al reato.

In questo caso, il giudice, anche se non è stata accertata la responsabilità penale del soggetto (perché assolto, oppure perché è stata disposta l’archiviazione della sua posizione), sarebbe comunque tenuto a ordinare la confisca delle cose che costituirono il prezzo del reato e delle altre espressamente indicate nella disposizione, con un’unica eccezione: che le cose appartengano a persona estranea al reato.

Trattato l’istituto in termini generali, vediamo ora come si atteggiano le disposizioni in materia di confisca di opere d’arte contraffatte e come si è espressa al riguardo la Corte di Cassazione.

Il comma 2° dell’art. 518-quaterdecies, c.p. [3], dispone: «È sempre ordinata la confisca degli esemplari contraffatti, alterati o riprodotti delle opere… , salvo che si tratti di cose appartenenti a persone estranee al reato…».

Dal tenore letterale della disposizione sembrerebbe che il giudice sia sempre tenuto ad applicare la confisca delle opere contraffatte, e quindi l’istituto in questione diverrebbe di applicazione obbligatoria.

Se si dovesse dare credito all’interpretazione autentica della disposizione, non si avrebbero dubbi sul fatto che, in presenza di opera contraffatta e dunque in violazione dell’art. 518-quaterdecies, c.p., il giudice deve ordinare la confisca.

Il dubbio, tuttavia, emerge se si prende in considerazione la pericolosità del bene oggetto di confisca. In altri termini: può l’opera d’arte contraffatta, qualora lasciata nella disponibilità del soggetto, venire reimmessa nel mercato e quindi realizzare ulteriori illeciti?

Sebbene la risposta non possa che essere ovviamente affermativa, occorre tuttavia precisare che quale presupposto per l’applicazione della confisca è l’accertamento del fatto-reato nella sua dimensione oggettiva. Occorre cioè che sia accertata quantomeno la contraffazione, prescindendo dall’elemento soggetto della persona imputata.

Occorre, in altri termini, che la cosa denoti in sé una pericolosità idonea a realizzare nuove fattispecie di illeciti e ciò impone, quale conditio sine qua non, l’accertamento – in contraddittorio tra le parti (ossia l’imputato, in contraddittorio con la pubblica accusa, può ben nominare un suo consulente e quindi dimostrare che l’opera è autentica; anche il giudice, in sede dibattimentale, ha poteri di accertamenti attraverso la perizia) – della non autenticità dell’opera ai fini della applicazione della confisca.

Sul punto è intervenuta la suprema Corte di Cassazione con una sentenza recente [4], in merito ad una vicenda il cui contenuto essenziale è stato riportato all’inizio del presente intervento, con la quale si è espressa sulla obbligatorietà della confisca di un’opera d’arte contraffatta, in applicazione della precedente disposizione [5] in vigore prima della riforma, ma che per la sostanziale trasposizione della norma, essa trova applicazione anche nell’attuale assetto normativo. In estrema sintesi, la Corte ha così statuito: «… deve in conclusione affermarsi che la confisca di opere d’arte prevista dall’art. 178 cit., seppur obbligatoria, non è assimilabile, in quanto non  ricade su beni di natura intrinsecamente criminosa, alla confisca obbligatoria tipica disciplinata dall’art. 240, secondo comma, n. 2, cod. pen., presupponendo perciò, ove disposta in assenza di una pronuncia di condanna, un accertamento incidentale del fatto reato e, pertanto, della falsità, o meglio contraffazione dell’opera.».

Quindi, in assenza di sentenza di condanna, come nel caso innanzi esposto, il giudice, ai fini dell’applicazione della confisca obbligatoria, è comunque tenuto ad accertare quantomeno il fatto reato dal punto di vista oggettivo, disponendo – in ultima analisi – anche dei suoi poteri di verifica attraverso la nomina di un perito, e ciò in quanto l’opera d’arte non presenta intrinsecamente connotati di criminosità. Sarebbe come dire: poiché il dipinto non può essere paragonato ad un’arma, allora occorre verificare se esso è effettivamente idoneo a realizzare nuovi reati e in caso affermativo – dunque in caso di accertata contraffazione – il giudice deve ordinare la confisca.

Probabilmente l’orientamento giurisprudenziale della suprema Corte di Cassazione lascia spazi ad una interpretazione non perfettamente in linea con il contenuto letterale della disposizione normativa, tuttavia, a ben vedere, occorre subito precisare che l’accertamento del fatto-reato nel processo penale è una condizione imprescindibile ai fini della dichiarazione di responsabilità dell’imputato. Ciò, peraltro, oltre a garantire la certezza del diritto, permette all’imputato di potersi difendere dalle accuse avanzate nei suoi confronti e, in ultima analisi, assicura la tutela del patrimonio culturale autentico, il quale, attraverso la confisca, verrebbe depurato di un’opera d’arte della quale sia stata accertata la non autenticità.

Bibliografia e Sitografia:

Codice Penale, Cedam, 2022

Codice Procedura Penale, Cedam, 2022

www.altalex.com

www.cortedicassazione.it

www.sistemapenale.it

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Leonardo Miucci

Scritto in data: 8 settembre 2022

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.


[1] La vicenda qui narrata è tratta in parte da un caso realmente accaduto, all’epoca in cui erano in vigore le disposizioni antecedenti alla riforma che ha introdotto nel Codice Penale il Titolo VIII in materia di reati contro il patrimonio culturale.

[2] Per prezzo del reato dobbiamo intendere la somma di denaro pattuita per realizzarlo (esempio: la somma promessa nel reato di corruzione); il prodotto è da intendersi la cosa materiale che si origina dal reato (esempio: la realizzazione di un’opera falsificata e posta in vendita per autentica); il profitto è il guadagno o il vantaggio economico derivato dall’illecito (esempio: il guadagno conseguito dal pusher nell’attività di spaccio di stupefacente).   

[3] La disposizione è contenuta nel Titolo VIII-bis del Codice Penale, introdotto con la Legge 9 marzo 2022, n.22.

[4] Cass. Pen., Sz. III, 4 maggio 2021, n. 30687.

[5] Art. 178, comma 4°, D.Lgs.vo n. 42 del 2004 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”.

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Pubblicato da Leonardo Miucci

Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, precedentemente in servizio presso la Sezione TPC di Siracusa