La festa di Sant’Agata a Catania

Dopo aver parlato, in un precedente articolo, della festa barocca di Santa Rosalia a Palermo, con tutti i significati ideologici ed extra-religiosi della stessa [1], vediamo adesso, quasi per par condicio, la festa di Sant’Agata, patrona della città di Catania.

In primis va immediatamente detto che la festa di Sant’Agata è la terza festa cristiana più seguita al mondo – per numero di fedeli e partecipanti – dopo la Semana Santa di Siviglia e il Corpus Domini di Cuzco (Perù). Da cosa deriva questo primato? Per comprenderlo occorre guardare, brevemente, alla storia di Sant’Agata e poi alle origini dei festeggiamenti.

Questi ultimi si svolgono in tre giorni – dal 3 al 5 febbraio, giorno in cui la Chiesa ricorda il martirio della santa catanese –.

In base alle fonti (i testi agiografici, redatti tra il V e il VI secolo) Agata nacque intorno al 230 d.C. da un’agiata famiglia catanese che professava la religione cristiana. Nel 250 il nuovo prefetto della città, Quinziano, intenzionato a far rispettare le disposizioni imperiali sul divieto di professare il cristianesimo, e invaghitosi di Agata, la fece arrestare e cercò di corromperne lo spirito con ogni mezzo: prima la affidò ad una prostituta affinché ne minasse la fede, successivamente – visto il fallimento della donna – la sottopose ad interrogatorio seguito dalla tortura (ad Agata venne, prima, amputato un seno, che ricrebbe miracolosamente grazie all’intervento di San Pietro, poi la stessa vergine venne gettata nuda sui carboni ardenti per morire in carcere immediatamente dopo). Era il 251.

La giovane divenne subito oggetto di devozione in quanto, sembra, abbia fermato la lava dell’Etna che, a seguito di un’eruzione nel 252, minacciava la città.

Nel 1040 le spoglie mortali di Agata vennero trafugate da Giorgio Maniace e portate a Costantinopoli; vennero poi ricondotte a Catania la notte del 17 agosto 1126 e oggi riposano in cattedrale, all’interno del busto-reliquiario del XIV secolo (la calotta cranica) e dello scrigno argenteo, realizzato tra il 1470 e il 1556 (i femori, le mani, i piedi, uno dei seni [2] e il velo rosso che – come sopra esposto – fermò la colata lavica del 252).

Il 3 febbraio di ogni anno, nella mattinata, dal Palazzo degli Elefanti – sede del Comune di Catania –, in piazza Duomo, esce la settecentesca carrozza del Senato sopra la quale vi sono il sindaco e alcuni membri dell’amministrazione comunale. Altri componenti prendono posto su un’altra carrozza, più piccola. Percorrendo la via Etnea la carrozza si dirige verso piazza Stesicoro dove si trova la chiesa di Sant’Agata alla Fornace (la chiesa sorge, secondo la tradizione, sul luogo ove si trovava la fornace dove fu gettata la santa); qui il sindaco consegna le chiavi della città al clero. Segue la processione dell’offerta della cera – con la presenza delle ‘candelore’, o Cerei di Sant’Agata – da piazza Stesicoro fino in cattedrale.

Le candelore sono undici macchine lignee, scolpite, intagliate e dorate, dal peso variabile tra i 400 e i 900 kg, che vengono portate a spalla dai devoti, legate alle corporazioni di arti e mestieri. Ecco come le descrive il Pitrè:

«Son dette candelore […] certi colossali ceri, lunghi parecchi metri, aggruppati in un fascio ed infilati in un monumentino di legno a vari ordini formante una specie di torricella, in ogni scompartimento della quale tu vedi scolpiti gli episodi del martirio di Sant’Agata, alternati con statue di santi e di angioli. Tutto il monumentino è dorato, ornato di festoni, banderuole, fanaletti e ceri. La pesante macchina fa il giro dei vari membri del ceto  che concorre alla sua manutenzione, e dinanzi ai quali, ricevuta con fuochi di gioia, mortaretti e maschetteria, balla a suon di musica che l’accompagna» [3].

Candelora di Sant’Agata (foto di Leandro Neumann Ciuffo, CC BY 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by/2.0, da Wikimedia Commons)

Questo l’ordine in processione:

  • Cereo di Monsignor Ventimiglia: è la candelora più piccola. Voluta dal vescovo Ventimiglia dopo l’eruzione lavica che, nel 1776, minacciò di distruggere alcuni paesi etnei. È l’unica candelora non legata alle corporazioni. Colpita dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, venne ricostruita quasi fedelmente all’originale nella seconda metà del Novecento;
  • Cereo dei Rinoti: anche detto ‘Primo Cereo’. Fu donato, all’inizio dell’Ottocento, dagli abitanti del quartiere di San Giuseppe La Rena;
  • Cereo dei giardinera o ortofrutticoli: in stile gotico veneziano e definito ‘la regina’;
  • Cereo dei pisciari (pescivendoli): in stile rococò, benché di fattura ottocentesca;
  • Cereo dei fruttaiola (fruttivendoli): detto ‘la signorina’ per via del suo movimento in processione;
  • Cereo dei chianchieri (macellai);
  • Cereo dei pastai: molto semplice e senza decorazioni relative al martirio di Sant’Agata, è in stile barocco e il candelone centrale è in vera cera;
  • Cereo dei pizzicagnoli (venditori di formaggio e salumi): in stile liberty con quattro cariatidi alla base che fungono da colonne;
  • Cereo dei putiari o bettolieri (vinai);
  • Cereo dei pannitteri (panettieri): il più pesante di tutti – tanto che deve essere portato da dodici uomini – e per tale motivo è detto ‘la mamma’;
  • Cereo del Circolo cittadino di Sant’Agata: realizzato nel 1874.

A queste undici candelore si sono aggiunte, in tempi molto recenti, le seguenti due:

  • Candelora del Villaggio Sant’Agata: inaugurata nel 2010 e in processione dal 2012;
  • Candelora dei ‘Mastri artigiani’: in processione dal 2018.

Le candelore muovono verso la cattedrale con la tipica annacata, una sorta di balletto che è possibile vedere anche nei giorni precedenti l’inizio dei festeggiamenti, quando le stesse candelore girano nelle strade del centro storico della città.

I festeggiamenti si concludono con ‘a sira ‘o tri’, con un concerto eseguito in piazza Duomo cui fa seguito l’imponente e scenografico spettacolo pirotecnico, sempre molto atteso da tutta la città.

            Il 4 febbraio è il giorno più atteso: finalmente Catania potrà ‘riabbracciare’ la sua patrona dopo un anno di attesa. Sin dalle prime luci dell’alba si vedono in giro molti devoti – definiti anche con il termine ‘cittadini’ [4] – che girano vestiti con un camice bianco (detto u saccu), legato in vita da una cordicella, guanti e fazzoletto bianchi e un piccolo copricapo nero (a scuzzitta). Tale abbigliamento richiamerebbe la vecchia camicia da notte che i catanesi indossavano la notte del 17 agosto 1126, quando le spoglie di Sant’Agata vennero portate in città e loro accorsero al porto. Prima della celebrazione eucaristica – la Messa dell’Aurora – viene aperto il sacello che custodisce il busto-reliquiario di Sant’Agata e lo scrigno con le altre reliquie. Fortissima l’emozione dei ‘cittadini’, che da questo momento in poi non dormiranno più per le prossime 48 ore.

Al termine della celebrazione, presieduta dall’arcivescovo, lo scrigno e il busto di Sant’Agata vengono portati fuori – mentre i fedeli intonano l’inno di Sant’Agata – e posti, quindi, sul fercolo all’esterno della cattedrale, accompagnati dalle urla quasi invasate dei ‘cittadini’, che sventolano incessantemente i loro fazzoletti bianchi in segno di saluto, e della folla che riempie la piazza, nonché dallo sparo di fuochi artificiali e dal festoso suono delle campane della cattedrale. Al termine delle operazioni, finalmente, Sant’Agata è pronta a fare il giro della città per abbracciare i suoi concittadini. Il 4 febbraio il fercolo, adornato con garofani rossi simbolo del martirio, spinto dai devoti – che non smettono mai di urlare «Cittadini, cittadini! Semu tutti devoti tutti! Cittadini! Viva Sant’Ajita! [Sant’Agata, ndA]» e di sventolare i loro fazzoletti – e accompagnato da una folla di gente che si accalca in ogni parte, compie il giro esterno della città, passando per i luoghi del martirio legati alla storia della santa. La processione dura tutta la giornata. Momenti particolari di questo primo giro sono a cchianata de’ Cappuccini (la salita dei cappuccini), svolta di corsa fino alla chiesa di San Domenico – si vuole che la salita venga effettuata di corsa per evitare alla santa il ricordo del martirio, data la presenza, proprio in piazza Stesicoro, della chiesa di Sant’Agata alla Fornace, alle cui spalle vi è poi la chiesa di Sant’Agata al Carcere – e la calata da marina (una discesa che conduce al mare, a ricordo del trafugamento del corpo e della sua partenza per l’Oriente). La processione rientrerà in cattedrale a tarda notte o alle prime luci dell’alba.

L’indomani – 5 febbraio – nella tarda mattinata, in cattedrale, si svolge il solenne pontificale, celebrato da un legato pontificio (un cardinale) insieme a tutti gli altri vescovi di Sicilia. Al tramonto ha inizio il giro interno del fercolo con le reliquie. I garofani rossi sono stati sostituiti con quelli bianchi, simbolo della purezza di Agata. A spingere il pesante fercolo sono ancora i devoti – che non hanno riposato dall’alba del giorno precedente, dimostrando in questo modo il loro particolare legame con la patrona –. Il giro interno prevede il seguente itinerario: da piazza Duomo si imbocca la via Etnea, poi via Caronda fino a piazza Cavour (anche detta piazza Borgo) dove, a tarda notte, si potrà assistere ad un nuovo spettacolo pirotecnico; da qui si ritorna verso il centro cittadino attraverso la via Etnea per poi imboccare la famigerata salita di Sangiuliano – ogni anno vi è fino all’ultimo il dubbio se prendere questa particolare salita, per via del fatto che la pendenza è notevole e il selciato è pieno della cera lasciata dalle candele dei devoti nei giorni precedenti – che, in genere, viene effettuata di corsa: «Esso rappresenta una prova di coraggio per i “cittadini”, ma è anche interpretato – a seconda di come viene superato l’”ostacolo” – come un segno celeste di buono o cattivo auspicio per l’intero anno»[5]. Superata la salita il fercolo percorre via Crociferi, la via barocca più bella della città, per raggiungere il monastero di clausura delle suore benedettine; queste, da dietro le grate, intonano un piacevole canto per salutare la patrona di Catania. Dopo il canto delle suore, il corteo prosegue per piazza San Francesco e le vie Santa Maria della Lettera e Garibaldi per fare ritorno in piazza Duomo, ormai sempre più spesso nella tarda mattinata del 6 febbraio.

I devoti sono massacrati dalla stanchezza, i loro volti sono rigati, contemporaneamente, dalla fatica e dalle lacrime, poiché nessuno vuole separarsi dalla sua santa patrona; tutti sanno che, una volta rientrata in cattedrale, non la vedranno più per diversi mesi. La commozione di tutti è visibile, insieme alla gioia che in questi giorni li ha accompagnati. Ma Sant’Agata, dopo un ultimo saluto alla sua Catania, deve rientrare nel suo sacello in cattedrale.

«Quando Catania riconsegna alla cameretta in cattedrale il reliquiario e lo scrigno, i sacchi bianchi non profumano più di bucato, i volti sono segnati dalla stanchezza, i muscoli fanno male, la voce è ridotta a un filo sottile [quando c’è ancora, ndA]. Ma la soddisfazione di aver portato in trionfo il corpo di Sant’Agata per le vie della sua Catania riempie tutti di gioia e ripaga di quelle fatiche»[6].

Il sacello verrà chiuso nuovamente dai tre custodi e i devoti dovranno attendere pazientemente la festa del 17 agosto, svolta a ricordo del ritorno in città delle spoglie mortali della santa.

In questi giorni di festa la città è stata invasa non solo dai cittadini-devoti, ma anche da migliaia di turisti provenienti da ogni parte della Sicilia, curiosi di prendere parte all’imponente manifestazione che resterà per sempre scolpita nei loro cuori.

Collegata poi alla festa di Sant’Agata è la tradizione culinaria che vuole, in quei giorni, la preparazione e consumazione – oltre che della tradizionale calia e simenza (arachidi, pistacchi, semi di zucca) – dei tipici dolci detti minnuzzi ‘i sant’Ajita cioè di una piccola cassatella di forma rotonda, realizzata con pan di spagna, ricotta, gocce di cioccolato, glassa bianca e una ciliegia al culmine. Il nome minnuzzi (mammelle) è dovuto alla loro forma tondeggiante e alla ciliegia e vogliono essere un modo per celebrare la santa patrona anche attraverso la gastronomia catanese, con il richiamo dell’episodio del taglio del seno subito da Agata durante il martirio.

Le minnuzzi ‘i sant’Ajita, dolce tipico della città di Catania (fonte: Wikipedia; Stefano Mortellaro from Catania, Italy, CC BY 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by/2.0, via Wikimedia Commons)

Perché – ci si chiederà – un articolo di approfondimento sulla festa di Sant’Agata, dopo un altro sul Festino di Santa Rosalia? La curiosità è più che lecita.

Si tratta di due tra le feste religiose più importanti della Sicilia, se si escludono le manifestazioni pasquali. Inoltre, come si è visto, la festa di Sant’Agata, oltre ad essere antichissima (più della festa di Palermo, risalendo, quella catanese, al XIII secolo) è molto seguita, non solo dai devoti ma anche da migliaia di siciliani che, ogni anno, si riversano in città. Altri elementi che meritano la pena di essere evidenziati, e che si è cercato di comunicare nelle righe precedenti, sono appunto il forte legame tra i catanesi e la loro patrona – si veda in proposito quanto scritto circa le grida di giubilo dei devoti (quasi gli stessi fossero invasati), o della sofferenza quando il busto argenteo deve rientrare in cattedrale al termine del secondo giro –. Tanto altro si potrebbe dire; in sintesi Sant’Agata è viva per i cittadini catanesi. Non si tratta solamente di un oggetto che viene portato in processione, ma di una santa che viene ancora considerata presente nella vita della città, oltre che di una manifestazione religiosa – e anche folkloristica – che contribuisce a rinsaldare sempre più i legami tra tutti i cittadini catanesi, a prescindere dalle rispettive condizioni sociali: i catanesi si identificano come tali attraverso la devozione nei confronti della santa. La festa di Sant’Agata si pone, così, come elemento identitario di un popolo, come bene culturale immateriale, la cui tutela e valorizzazione passano anche dalla sua conoscenza diffusa tra quanta più gente possibile, obiettivo che si prefigge di raggiungere – nel suo piccolo – il presente contributo.

Bibliografia essenziale:

  • G. Pitrè, Feste patronali in Sicilia, Torino 1900.

Sitografia:


[1] Si veda l’articolo E. Riccobene, Feste barocche di Sicilia: l’esaltazione della città di Palermo attraverso il festino di Santa Rosalia reperibile sul blog LaTpc al seguente link: <https://latpc.altervista.org/feste-barocche-in-sicilia-lesaltazione-della-citta-di-palermo-attraverso-il-festino-di-santa-rosalia/>.

[2] L’atro è a Gallipoli come segno di ringraziamento alla città per aver ospitato il corpo della santa nel viaggio di rientro da Costantinopoli.

[3] Cfr. G. Pitrè, Feste patronali in Sicilia, Carlo Clausen, Torino 1900, pp. 219-220.

[4] Probabilmente il termine ‘cittadini’ che indica i devoti di Sant’Agata è usato consapevolmente proprio per indicare il forte senso di appartenenza e identificazione tra Catania – e l’essere cittadino catanese – e la sua patrona: se si è cittadino catanese allora, automaticamente, si sarà anche devoto di Sant’Agata; di contro se non si è cittadino catanese non si è neanche devoto della santa patrona. A confermare questo vi è quanto urlato dai devoti in occasione della processione: «Cittadini! Semu tutti devoti tutti! Cittadini!».

[5] Cfr. <https://www.comune.catania.it/la-citta/santagata/la-festa-di-sant-agata/la-aprocessione.aspx> (URL consultato in data 27/7/2022).

[6] Ibidem.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Emanuele Riccobene

Scritto in data: 11 settembre 2022

Foto di copertina:

Busto di Sant’Agata: foto di Riccardo Spoto at Italian Wikipedia, Public domain, via Wikimedia Commons (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Busto_di_Sant%27Agata.jpg)

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

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Pubblicato da Emanuele Riccobene

Storico. Ha conseguito il master I° livello in "Esperti nella tutela del patrimonio culturale" presso l'Università "Roma Tre". Ha all'attivo pubblicazioni sulla storia politica, militare, economica e sociale della Sicilia. Sta inventariando il patrimonio culturale immateriale del Comune di Delia (CL).