La tutela del Patrimonio Culturale in Italia dalle origini alla Seconda Guerra Mondiale – Parte 1: dagli Stati preunitari all’Unità d’Italia

Tramite la serie di articoli che prende avvio oggi con questo primo, intendiamo ripercorrere la storia della normativa di tutela in Italia. Ben consapevoli del fatto che norme e interventi che andassero a tutelare il patrimonio artistico risalgano già all’antichità romana, scegliamo di concentrarci, però, in questa sede sull’epoca contemporanea, in particolare a partire dai primi anni del XIX secolo fino alla Seconda Guerra mondiale, così come sulle azioni di tutela volte a contrastare le esportazioni illecite di opere d’arte e sulla conseguente dispersione del patrimonio culturale italiano.

Ecco, quindi, che, in seguito all’esperienza drammatica delle spoliazioni napoleoniche (di cui parleremo in un prossimo articolo), che avevano causato una notevole depauperazione del patrimonio artistico italiano, emerse con forza e urgenza, la necessità di dotarsi di un sistema normativo che ponesse un freno a tali dispersioni. Si rivelarono, in primo luogo, assolutamente necessari interventi di controllo capillare dei beni artistici mobili, per loro natura facilmente alienabili ed esportabili.

Fu durante l’epoca di Papa Pio VII Chiaramonti, quindi, nel corso del primo ventennio del XIX secolo, che si indirizzò una maggiore attenzione alle politiche di tutela. Figura di spicco in questo contesto fu l’abate Carlo Fea, divenuto commissario alle Antichità e agli scavi per lo Stato Pontificio, nel 1800. Attento studioso e filologo della normativa di tutela, Fea pose al centro del proprio pensiero il concetto secondo il quale il bene culturale doveva essere riconosciuto come bene pubblico. Frutto degli studi e della concezione di Fea fu l’Editto del cardinale carmelengo Doria Pamphilj Landi, meglio conosciuto come Editto Doria Pamphilj, promulgato il 2 ottobre 1802. Tra i maggiori interventi previsti vi era l’estensione della normativa e della salvaguardia a tutto il patrimonio mobile, pubblico e privato. Inoltre, la formulazione di un elenco, di un inventario, di tutti i beni inalienabili, ivi compresi quelli conservati all’interno dei luoghi di culto, può essere considerata un primo importante passo verso la prassi della tutela preventiva.

Seguì, il 7 aprile 1820, l’Editto del carmelengo e Vescovo di Frascati Cardinal Bartolomeo Pacca, che costituisce una pietra miliare nella legislazione in materia di tutela del patrimonio storico – artistico. Interventi sicuramente innovativi dell’Editto Pacca furono: l’organizzazione su base territoriale di un’istituzione di controllo; l’introduzione della “esattissima nota”, vale a dire di una prassi di inventariazione richiesta sia per i beni pubblici che privati; introduzione del tema del patrimonio culturale, estendendo le prassi di tutela anche alle testimonianze storiche e ai beni liturgici, questi ultimi considerati oltre il loro valore di oggetti utilizzati per le pratiche cultuali. Al bene, quindi, viene riconosciuto un valore intrinseco ed è per questo soggetto a tutela.

Editto del Card. Pacca (foto tratta da archive.org)

La normativa dello Stato Pontificio rappresentò il modello a cui gli altri Stati Italiani preunitari si rifecero nell’emettere loro provvedimenti di tutela. I diversi e innovativi aspetti introdotti dall’Editto Pacca vennero sviluppati secondo le diverse esigenze. Riadattati alle specificità dei territori e dei patrimoni esistenti su di essi, gli interventi di tutela rivolti verso i monumenti e gli oggetti d’antichità ed arte negli Stati preunitari furono piuttosto diversificati. Ad ogni modo, molti di questi ebbero lo scopo di porre un freno all’esportazione illecita di opere d’arte, alienate, molto spesso, per somme irrisorie.

Il Granducato di Toscana e il Regno delle Due Sicilie prevedevano, invece, interventi normativi di tutela dei rispettivi patrimoni storici e artistici, tentando in particolare di arginare il commercio dei reperti archeologici rinvenuti durante gli scavi etruschi di Volterra del 1731 e in occasione della scoperta di Pompei ed Ercolano. Inoltre, le complesse normative del Granducato di Toscana e del Regno di Napoli, facendo propri i principi dell’Editto Pacca, introdussero il principio secondo cui i reperti archeologici fossero proprietà comune della società civile. La Toscana fin dal XVI secolo aveva, inoltre, allineato la propria legislazione a quella pontificia, ma la grande svolta innovatrice avvenne grazie ad Anna Maria Luisa, ultima erede del ramo granducale della famiglia de’ Medici, la quale, nel 1737, lascia ai Lorena le immense collezioni medicee. Il cosiddetto “Patto di famiglia”, che venne, quindi, stipulato, prevedeva il lascito alla sola condizione che le collezioni non venissero disperse, ma, anzi, rimanessero legate alla città di Firenze, come beni di utilità pubblica, allo scopo di formare culturalmente i cittadini e di attrarre stranieri e turisti.

Esempio alternativo di tutela rispetto a quello rappresentato dallo Stato Pontifico erano i lineamenti legislativi costruiti dalla Repubblica di Venezia. Essi privilegiavano la conservazione attiva tramite la creazione di un laboratorio pubblico di restauro e la tutela attraverso il catalogo. Nel 1773, infatti, il Consiglio dei Dieci creava un organismo istituzionale che avesse lo specifico ruolo di salvaguardia dei beni artistici, affidando gli incarichi a personalità competenti come Anton Maria Zanetti. Egli ebbe, quindi, il compito di seguire il censimento dei dipinti di autori maggiori. Il lavoro di Zanetti e degli Ispettori a lui succeduti arginarono, in parte, vendite ed esportazioni illecite.

Anche i restanti Stati preunitari introdussero disposizioni di tutela nei confronti dei beni di interesse storico e artistico presenti sui loro territori. Faceva eccezione il Regno di Sardegna che, all’Unità d’Italia si rivelò essere lo stato con la normativa in materia di tutela dei beni culturali più debole. Lo Stato sabaudo mancava completamente di disposizioni normative in questo ambito. Faceva eccezione il brevetto assunto da Carlo Alberto il 24 novembre 1832, con Regio Decreto, con cui si istituiva una consulta di esperti di Antichità e Belle Arti affinché questa proponesse soluzioni che garantissero il diritto alla ricerca e la tutela degli oggetti d’arte, senza però andare a ledere il diritto di proprietà che i privati esercitavano su di essi. Tale provvedimento faceva comunque sue alcune tra le più importanti motivazioni del chirografo del 1802. In particolare, si affermava la necessità di tutelare un patrimonio che procurava gloria a tutta l’Italia e che sarebbe servito a comprendere la storia del Paese.

Facendo un’analisi comparativa dei singoli provvedimenti adottati dagli stati preunitari, emerge una comune attenzione a limitare la dispersione del patrimonio, motivo per il quale già dal Settecento si erano eseguiti i primi censimenti di opere e oggetti d’arte e preziosi, stilando inventari, che in qualche modo rappresentavano gli antenati dei moderni elenchi. Si delinea, così, il principio secondo il quale tali beni censiti facessero parte di un patrimonio appartenente alla società pubblica.

Bibliografia essenziale:

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S. Condemi, Dal decoro et utile” alle antiche memorie”. La tutela dei beni artistici e storici negli antichi Stati italiani, 1987.

V. Curzi, Bene culturale e pubblica utilità. Politiche di tutela a Roma tra Ancien Régime e Restaurazione, Bologna, Minerva Edizioni, 2004.

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L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte. Raccolta di leggi, decreti, regolamenti, circolari relativi alla conservazione delle cose d’interesse storico-artistico e alla difesa delle bellezze naturali, Seconda Edizione, Vol. I, Roma, 1932.

M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli Stati italiani preunitari, I: L’età delle riforme, Milano, 1988.

C. Tosco, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, Il Mulino, 2014.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Caterina Zaru

Scritto in data: 17 gennaio 2021

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