Arte della guerra, armature e abbigliamento militare nel XVI e XVII secolo: l’armatura come fonte per la storia e oggetto d’arte

Quando si parla di guerra, generalmente, si pensa subito alla sua accezione negativa (causa di orrore, distruzione, morte). Lo stesso Leonardo da Vinci la definì una «pazzia bestialissima», eppure non disdegnò di progettare macchine belliche innovative, che è possibile ammirare nei suoi disegni, quando lavorò presso la corte di Ludovico il Moro a Milano.

Pur senza rinnegare questa visione negativa della guerra, ci vogliamo concentrare anche sui suoi aspetti ‘positivi’, più volte evidenziati dalla storia nelle varie epoche. In questo caso si tratterà di osservare in quale modo la guerra influenzò l’evoluzione dell’abbigliamento militare nel corso del XVI e XVII secolo. Operando in tale maniera si getterà luce non tanto sull’arte della guerra in sé, ma su quegli oggetti – le armature – che dei cambiamenti nell’arte bellica sono stati i testimoni più diretti; l’obiettivo sarà quello di porre attenzione su questi oggetti, e di conseguenza sulla cosiddetta arte decorativa, per conferire loro un’attenzione maggiore, avvicinandoli ad un pubblico più ampio rispetto alla cerchia elitaria di studiosi, storici, museologi, conservatori e oplologi, (ovvero quegli studiosi di armi e armature; oplologia, a sua volta, deriva dal greco hoplon = armatura, corredo d’armi dei fanti dell’antica Grecia).

Per meglio comprendere il nostro oggetto d’esame – l’evoluzione dell’abbigliamento militare – sarà necessario, quasi propedeutico, inquadrare il concetto di military revolution. Con questa espressione si fa riferimento ad un tema storiografico relativamente recente, introdotto nel dibattito accademico da Michael Roberts, riguardante l’introduzione delle armi da fuoco nell’arte della guerra. Questa innovazione tecnologica, che, come fanno rilevare Philippe Contamine e Carlo Cipolla, non riguardò solamente il XVI secolo ma anche i due precedenti, comportando sostanziali modifiche nel modo di fare la guerra: furono infatti inventate nuove tecniche d’assedio, alle quali si rispose tramite nuove fortificazioni; aumentarono i soldati nei vari eserciti, cui seguì una diversa disposizione delle truppe sui campi di battaglia, cosi come nuove manovre e nuovi armamenti; questo aumento dei contingenti comportò, a livello logistico, tutta una serie di problemi legati all’arruolamento delle truppe e ai relativi rifornimenti (sia di viveri, sia di uniformi e paghe). A tutto ciò vanno aggiunte le modifiche della guerra navale, studiate da Geoffrey Parker, il quale ampliò i limiti cronologici del fenomeno portandoli all’arco di tempo compreso tra il 1500 al 1800.

Il periodo di tempo che fa da sfondo al nostro argomento – il XVI e il XVII secolo – ha visto la guerra protrarsi in maniera quasi incessante in Europa tanto da indurre Massimo Carlo Giannini a definirlo ‘lungo Cinquecento italiano’.

Di conseguenza, le armature che vediamo in bella mostra nei musei italiani e stranieri [1] sono per lo più armature cinquecentesche e seicentesche. Sono pochi gli esempi di armature risalenti al Quattrocento, le più importanti delle quali sono gli esemplari un tempo conservati presso il santuario di Santa Maria delle Grazie di Curtatone (MN) e oggi, invece, custoditi presso il museo diocesano di Mantova. Su di esse, e più in generale sull’evoluzione dell’armatura italiana, ci informano i lavori di Lionello Giorgio Boccia (1926-1996), uno dei più autorevoli oplologi del Novecento italiano. In particolare l’armatura di piastra che si concretizzò nel XV secolo fu il risultato finale di lunghi procedimenti creativi e adattamenti avvenuti in Europa già dal Trecento: per resistere alle varie armi d’offesa si passò dalla cotta di maglia a corazze più elaborate (alcune delle quali realizzate con il cuoio bollito che dava maggiore resistenza); nel frattempo in Inghilterra e in Francia si lavorava alla protezione del capo e delle articolazioni – delle spalle in particolare –, fino ad arrivare, proprio in Italia, all’elaborazione di una protezione per il busto costituita da quattro piastre metalliche quasi sovrapposte tra loro (il cosiddetto ‘guscio’); nel XV secolo esso si evolverà con la piastra inferiore che si andrà, progressivamente a sovrapporre completamente al ‘petto’. In seguito si utilizzeranno due sole piastre a difesa del tronco, una posteriore e una anteriore. Unendo a queste protezioni quelle elaborate in Francia e Inghilterra si arriverà all’armatura di piastra come la si conosce oggi.

Occorre a questo punto dire che nel XVI secolo esistevano due grandi categorie di armature: quelle d’uso e quelle da parata; a loro volta è possibile suddividere entrambe in sottocategorie. Ritroviamo così, per la prima, le armature d’uso vere e proprie, appartenenti ai vari corpi militari e, soprattutto, caratterizzate dalla completa assenza di decorazioni sulle superfici; alla stessa macro-categoria è possibile ascrivere anche le armature delle élites militari come la Guardia Medicea o quella Papale, alcuni esempi delle quali sono conservate al Museo Stibbert.

La peculiarità delle armature di questa sotto-categoria era la decorazione delle superfici con la tecnica del bulino e dell’incisione all’acquaforte. Gli armaioli tendevano, in pratica, a replicare sulle superfici le decorazioni dell’abbigliamento civile. Un esempio in tal senso sono le armature ‘alla Massimiliana’ [2]: di manifattura tedesca della prima metà del Cinquecento, sono caratterizzate dai cannelli che si vedono sulla superficie della piastra anteriore.

Essi altro non erano che una sorta di tubicini metallici disposti sulla piastra a voler replicare il panneggio del sorcotto (indumento civile spesso indossato sopra le armature). Per chiarire meglio l’idea si prenda visione dell’affresco di Farinata Degli Uberti realizzato da Andrea del Castagno e oggi esposto agli Uffizi (fig. 1).

Fig. 1

Un discorso a parte meritano, invece, le armature da parata, suddivise in armature ‘all’antica’, ‘alla romana’ e ‘all’eroica’. A prescindere da queste ulteriori suddivisioni stilistiche, i modelli cui esse facevano riferimento erano i reperti archeologici, e specialmente i vari rilievi e le raffigurazioni sui monumenti antichi, di volta in volta ritrovati a Roma. Il motivo è semplice: si cercavano quanti più collegamenti possibili con l’età classica della quale gli uomini del Rinascimento si sentivano eredi; scrive in proposito Stuart W. Pyhrr:

«[…] Renaissance princes […] were often educated in the classics and saw themselves as successors of the great statesmen and generals of the ancient Rome and as the embodiment of the virtues of the ancient heroes. For the kings and captains of the day, wearing Roman-style military equipment imparted a sense of dignity, power, and legitimacy […]» [3].

Ciò che ci interessa in questa sede è l’apparato decorativo di questi pezzi di lusso. Le scelte decorative che sarebbero state realizzate sulle piastre e sugli altri pezzi dell’armatura non erano affatto casuali. Tali pezzi venivano realizzati all’interno di botteghe artigiane in quello che si potrebbe definire un sistema a catena di montaggio ante litteram; la primissima fase, progettuale, prevedeva il disegno di ogni singolo pezzo da parte di un artista come dimostra il disegno preparatorio per l’elmetto della guarnitura di Alessandro Farnese; seguiva la realizzazione dei pezzi da parte degli armaioli – nelle botteghe vi erano armaioli specializzati nella lavorazione dei diversi pezzi (elmi, spallacci, petti ecc. ma anche lame e finimenti) i quali, al termine del processo produttivo, che prevedeva anche l’applicazione delle decorazioni in oro e argento da parte di ulteriori artigiani specializzati proprio in questo, venivano poi assemblati tra loro –.

Le decorazioni cinquecentesche prevedevano all’incirca due tipologie, a volte sovrapposte tra loro: le cosiddette liste (le bande verticali, alternate tra loro) lisce e incise, come possiamo vedere nelle parti di una guarnitura di Emanuele Filiberto, duca di Savoia (Catalogo B 4, C. 86, C. 151, C. 227/228, E. 12) conservate a Torino presso l’Armeria Reale e nei resti di una piccola guarnitura da pompa, da piede e da ‘a cavallo’ di Cosimo I de’ Medici (inv. Odescalchi 394), oggi al Museo Nazionale di Palazzo di Venezia a Roma. Le decorazioni a sbalzo dorato e/o ageminato sulla superficie si riscontrano invece sull’armatura ‘ad ali di pipistrello’ (inv.: M 772) conservata al Museo Nazionale del Bargello a Firenze – il petto e uno spallaccio, mentre la borgognotta è all’Hermitage di San Pietroburgo –, nell’elmetto da cavaliere (inv.: 1022) al Museo Stibbert a Firenze, nel gioco di borgognotta e rotella, conservati al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli o nella guarnitura di Alessandro Farnese (inv. n. Hofjagd- und Rüstkammer, A 1132 e A 1153) presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Nel primo caso le incisioni vengono realizzate su una parte dell’armatura, separate tra loro dalle liste lisce, oppure possono riguardare tutta la superficie come nel caso di alcune armature di corpi militari specifici. In genere le incisioni sono costituite da nastri e nodi come nel caso della guarnitura di Emanuele Filiberto all’Armeria Reale; in questa circostanza il complesso decorativo a liste alternate è arricchito dallo sfondo dorato delle liste incise. Queste stesse decorazioni proseguono sull’elmetto. Proprio le incisioni consentono di avvicinare questa tipologia di armature a quelle delle élites militari (es.: le armature della Guardia Medicea) totalmente ricoperte di decorazioni.

Più interessanti risultano le armature sbalzate, con tutti i loro apparati iconografici comprendenti figure alate, figure allegoriche, mascheroni, ghirlande e decorazioni floreali, figure storiche e mitologiche ecc. e i significati che detti apparati vogliono trasmettere.

Un primo esempio è costituito dall’elmo da cavaliere al Museo Stibbert. È caratterizzato, appunto, da liste lisce intervallate da altre realizzate con decorazioni a sbalzo raffiguranti figure umane, che ricordano molto i fregi del Partenone, figure allegoriche, ghirlande ed altri elementi floreali. Tutto ciò, anche sulla cresta, era ulteriormente arricchito con dorature oggi scomparse che caratterizzavano l’oggetto come un pezzo di grande lusso.

Altre decorazioni simili si riscontrano nei resti della guarnitura da pompa della collezione Odescalchi. Come per l’elmo stibbertiano, si alternano liste pulite ad altre sbalzate su fondo dorato. Anche in questo caso le decorazioni sbalzate raffigurano elementi floreali e figure umane e mitologiche; le liste bianche sono invece caratterizzate da incisioni al bulino. Secondo i critici è possibile mettere questa guarnitura a confronto con una molto simile, oggi al Metropolitan Museum of Art di New York, la quale presenta, in aggiunta, il rilievo del Toson d’oro, una delle massime onorificenze concesse dalla monarchia asburgica. Ciò farebbe attribuire i pezzi a Cosimo I de’ Medici o a Gonzalo Fernandez de Cordoba, duca di Sessa che fu governatore di Milano tra il 1558 e il 1560.

Scrive Mario Scalini:

«[…] ben presto si assistette comunque a una standardizzazione del messaggio cesareo, che voleva leggere nel principe rinascimentale le stesse virtù che ricordavano le antichità romane. Sulle armature sbalzate, in molti casi si trovano rimandi alla ’Clemenza di Traiano’; agli episodi della vita di Cesare e ai fatti di Pompeo, a Marco Curzio, a Orazio Coclite e via dicendo, […]» [4].

E proprio decorazioni con la ‘Clemenza di Traiano’, Marco Curzio e Orazio Coclite si ritrovano nel gioco di borgognotta e rotella del Museo Nazionale di Capodimonte. Si tratterebbe, come suggerisce Umberto Bile, di due pezzi che si trovavano in un’armeria siciliana e che, nel febbraio del 1800, il barone Bonanno regalò al re di Napoli, Ferdinando, in Sicilia essendo Napoli occupata dai francesi di Napoleone. La borgognotta – ossia il copricapo a difesa della testa, costituito da coppo crestato (la calotta), tesa (a difesa degli occhi), gronda (protezione della nuca) e guanciali (o paragnatidi); le borgognotte venivano realizzate in svariate versioni –, mancante dei guanciali, è decorata a sbalzo con le due scene su citate (la ‘Clemenza di Traiano’ da un lato e Marco Curzio dall’altro) e arricchite in oro. La rotella (lo scudo) invece raffigura la scena mitologica di Orazio Coclite che affronta gli Etruschi mentre, alle sue spalle, i Romani distruggono il ponte Sublicio. Ma la città rappresentata sullo scudo non è Roma (il paesaggio di sfondo ha portato Umberto Bile ad ipotizzare che si possa trattare di Palermo). Da qui il doppio valore rappresentato dall’apparato iconografico: da un lato l’attualizzazione di un avvenimento storico-mitologico; in secondo luogo, proprio il dono fatto dal Bonanno al sovrano significava investire lo stesso del ruolo di liberatore del Regno di Sicilia dall’invasore francese.

Altra armatura che rientra nella categoria ‘da parata’, e in particolare in quelle ‘all’antica’, è l’armatura ‘ad ali di pipistrello’ conservata al Museo Stibbert. Quest’ultima tipologia si basa su elementi che rispecchiano molto il gusto manierista del tempo; si tratta fondamentalmente di arricchimenti fantasiosi applicati ad un modello base costituito dalle armature ‘alla romana’ – una sorta di rivisitazione in chiave fantastica di quest’ultimo modello di armatura –.

L’armatura in questione è smembrata. Al Museo del Bargello troviamo il petto anteriore e uno spallaccio; un altro spallaccio è al Metropolitan mentre la borgognotta è conservata al Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo.

Il petto al Bargello è:

«[…] [l’]unico pezzo conservatosi dell’intero busto, è caratterizzato da due grandi ali di pipistrello sulla superficie a loro volta arricchite da diverse file di occhi. Nella parte superiore, sotto lo scollo, è presente un cartiglio, anch’esso sbalzato, con la seguente iscrizione in lettere capitali: ‘NULLA BIBAM LAETHES OBLIVIA FLUMINE IN IPSO’. I fiancali, oggi perduti, erano forgiati a forma di lamelle squadrate, o pteruges, a simulare appunto le fasce di cuoio presenti sotto le armature romane. È possibile rendersi conto di tale forma per i fiancali sia osservando bene la parte inferiore e laterale del petto, sia attraverso il ritratto di Guidobaldo II della Rovere; in esso l’armatura, ritratta sullo sfondo (petto a destra e borgognotta a sinistra), appare completa, ad esclusione degli spallacci e dei bracciali. Da tale opera ci si rende conto anche delle dorature che arricchivano l’insieme, realizzate per evidenziare tutti i contorni e le forme dell’armatura (il profilo e le costolature delle ali, gli occhi all’interno delle stesse, il cartiglio superiore con l’iscrizione latina, gli pteruges, ecc.). Di tale doratura oggi non restano che labili tracce. Anche gli spallacci sono stati realizzati seguendo la moda dell’animale fantasioso (in questo caso due delfini con una sorta di capigliatura). Oggi uno di questi spallacci continua ad essere conservato presso il Museo del Bargello di Firenze, insieme al petto dell’armatura, mentre il secondo è stato acquistato da William H. Riggs nel 1913 per essere donato al Metropolitan Museum di New York. […]» [5].

La borgognotta è stata forgiata in un unico pezzo raffigurante, frontalmente, un mostro alato (le ali sono costituite dalle paragnatidi della stessa borgognotta, decorate anch’esse con occhi che rimandano a quelli del petto). La parte superiore della borgognotta, il coppo, è realizzata sotto forma di rettile squamato il cui corpo costituisce la parte posteriore del nostro copricapo e che andava a formare un ulteriore mascherone con la parte posteriore del guardacollo.

Ma l’armatura che, tra queste, rispecchia meglio di tutte il gusto manierista dell’epoca, e che rappresenta anche un vero e proprio pezzo di lusso è la guarnitura di Alessandro Farnese. Armatura a liste alternate, come quella ‘Odescalchi’, la ‘Farnese’ presenta tuttavia rilievi molto più sbalzati sulla superficie, arricchiti da dorature e argentature. Queste decorazioni risaltano anche per il fatto che le liste pulite siano scure (o ‘brunite’ secondo un linguaggio tecnico); inoltre tutte le decorazioni a sbalzo sono ulteriormente collegate tra loro da rilievi a ghirlanda che ‘tagliano’ orizzontalmente la superficie dell’armatura. Come già sulla guarnitura ‘Odescalchi’, anche sulla ‘Farnese’ si ritrovano figure umane, figure allegoriche e mascheroni rifiniti in argento (all’altezza degli spallacci). L’elmo è sormontato da una cresta realizzata sotto forma di mostro alato. La ricchezza delle decorazioni consente di classificare questa armatura – alla quale sono collegati altri pezzi intercambiabili, più uno scudo e una mazza) come candelabra.

Si potrebbero citare tantissimi altri pezzi conservati nei vari musei – tra questi si veda la rotella conservata al museo ‘L. Marzoli’ di Brescia raffigurante il trionfo di Bacco, che per apparato decorativo è possibile avvicinare alla rotella di Capodimonte – ma ciò che importa evidenziare in queste righe è più il significato simbolico di questi oggetti.

Proprio attraverso esso, le armature da parata svolgevano un vero e proprio ruolo propagandistico. Il semplice atto di indossare l’armatura conferiva al suo possessore un principio di legittimità. Inoltre queste armature erano destinate ad un certo tipo di committenza, particolarmente facoltosa. Si trattava, infatti, di principi, marchesi e in genere nobili – vi saranno in seguito anche sovrani e imperatori – che usavano l’arte della guerra per costruirsi i propri domini e i propri Stati. Attraverso le proprie armature, e in particolare gli apparati decorativi, questi signori cercavano, da un lato di assomigliare ai grandi uomini del passato, di incarnarne valori e virtù, dall’altro cercavano il consenso delle proprie truppe per l’impresa che, di volta in volta, ambivano compiere. Ma con il Seicento la situazione mutò poiché gli Stati territoriali vennero progressivamente sostituiti da quelli nazionali dove era il re a comandare, e tutti questi signori vennero ‘sminuiti’ al ruolo di comandanti militari; non aveva più senso cercare il consenso dei propri soldati attraverso la mostra dell’abito militare. A ciò si aggiunga pure il fatto che, con lo sviluppo delle artiglierie, specie durante la guerra dei Trent’anni, si sentiva la necessità di rafforzare i pezzi in modo tale da resistere ai colpi d’arma da fuoco, ed ecco che un’armatura da parata venne a perdere, di colpo, il proprio ruolo sui campi di battaglia; sopravvissero solamente le armature d’uso, che vennero appesantite fino al punto da risultare inutilizzabili, perché scomode, e allora vennero a loro volta alleggerite dei pezzi ‘inutili’, riducendosi alla sola protezione del busto.

Ecco allora che

«Le armature, con le diverse modifiche formali subite di volta in volta […] sono state i testimoni più affidabili del processo evolutivo, nel lungo periodo, della military revolution, ne sono state quasi lo strumento di misurazione al pari, o forse più, dei documenti d’archivio essendo state, esse, ‘testimoni oculari’ di questa rivoluzione che ha finito per renderle soggetti coinvolti da essa stessa»[6].

Concludiamo questo excursus ritornando alla visione iniziale che si è data dell’arte della guerra. Pur non volendo omettere i suoi aspetti negativi, paradossalmente essa ne presenta altri positivi, legati proprio alla produzione artigianale di questi oggetti. Essi, come visto, vennero di volta in volta adattati a resistere ai colpi avversari (dopotutto il loro scopo era proprio quello di preservare quanto più possibile il soldato). Quando si osservano questi oggetti così decorati e arricchiti, la catena produttiva costituita da artisti, armaioli, doratori, ageminatori, mercanti con annessi i rapporti sia fra loro che con le committenze, se consideriamo che tutte queste persone si trovano ‘all’ombra’ del fenomeno guerra, e che armi e armature sono, per così dire, la punta di questo enorme iceberg, non si può negare che la guerra sia stata fonte di sostentamento, di vita per tutta questa filiera produttiva; tutta questa gente, indirettamente, viveva attraverso la guerra.

Molti di questi oggetti sono arrivati fino a noi e costituiscono un’ulteriore testimonianza riguardo la vita di quell’epoca, al pari e forse più dei tantissimi documenti d’archivio. Questi oggetti sono allora fonte visiva per la storia di quel tempo, oggetto d’antiquariato e arte decorativa. Alla luce di tutto ciò meriterebbero sicuramente un’attenzione maggiore da parte di un pubblico più vasto e non esclusivamente da parte degli specialisti.

Bibliografia essenziale:

  • U. Bile, Le armi del cavaliere giostrante, Arte’m, Napoli 2011.
  • C. Blair, L. G. Boccia, Armi e armature, Gruppo editoriale Fabbri, Milano 1981.
  • L. G. Boccia, Il Museo Stibbert a Firenze, vol. III, L’Armeria europea, Milano 1975.
  • L. G. Boccia, Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone di Mantova e l’armatura lombarda del ‘400, Bramante, Milano 1982.
  • L. G. Boccia, Abbigliamento militare (ad vocem), in Enciclopedia dell’arte medievale, 1991.
  • L. G. Boccia, E. T. Coelho, L’arte dell’armatura in Italia, Bramante, Milano 1967.
  • C. M. Cipolla, Vele e cannoni, il Mulino, Bologna 2006.
  • P. Contamine, La guerra nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1986.
  • J. A. Godoy, S. Leydi, Parate trionfali. Il manierismo nell’arte dell’armatura italiana, Catalogo della mostra, 5Continents, Milano 2003.
  • G. Parker., La rivoluzione militare, il Mulino, Bologna 2005.
  • S. Pyhrr, J. A. Godoy, Heroic Armor of the Italian Renaissance. Filippo Negroli and his contemporaries, The Metropolitan Museum of Art, New York 1999.
  • E. Riccobene, L’evoluzione del costume militare nel XVI secolo attraverso alcuni esempi della collezione di Armeria Europea del Museo Stibbert di Firenze, Tesi di Master presso l’Università degli Studi ‘Roma Tre’, A.A. 2015-2016, Rel.: Prof. Riccardo Franci.
  • M. Scalini (a cura di), Armi e potere nell’Europa del Rinascimento, Catalogo della mostra, Silvana editoriale, Roma 2008.
  • P. Venturoli (a cura di), L’Armeria Reale di Torino. Guida breve, U. Allemandi, Torino 2003.

[1] Tra questi basti citare, tra gli italiani, l’Armeria Reale di Torino, il Museo Stibbert di Firenze, il museo ‘L. Marzoli’ di Brescia, il museo di Capodimonte a Napoli, le armerie di Castel Sant’Angelo e quella Odescalchi a Roma; tra quelli stranieri vi sono armerie presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Metropolitan Museum of Art di New York, la Wallace Collection di Londra, l’Hermitage di San Pietroburgo, il Musée de l’Armée di Parigi e la Real Armeria di Madrid.

[2] Così chiamate perché realizzate in Germania meridionale ai tempi dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo. Al Museo Stibbert di Firenze è possibile ammirarne due modelli nella celebre Cavalcata.

[3] S. Pyhrr, J.A. Godoy, Heroic Armor of the Italian Renaissance. Filippo Negroli and his contemporaries, The Metropolitan Museum of Art, New York 1999, p. 2.

[4] Cfr. M. Scalini, Il valore del principe e l’estetica della Maniera, in M. Scalini (a cura di), Armi e potere nell’Europa del Rinascimento, cit. p. 90.

[5] Cfr. E. Riccobene, L’evoluzione del costume militare nel XVI secolo attraverso alcuni esempi della collezione di Armeria Europea del Museo Stibbert di Firenze, Tesi di Master presso l’Università degli Studi ‘Roma Tre’, A.A. 2015-2016, Rel.: Prof. Riccardo Franci, pp. 100-102.

[6] Cfr. Ibidem, p. 110.

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Emanuele Riccobene

Scritto in data: 3 giugno 2021

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Pubblicato da Emanuele Riccobene

Storico. Ha conseguito il master I° livello in "Esperti nella tutela del patrimonio culturale" presso l'Università "Roma Tre". Ha all'attivo pubblicazioni sulla storia politica, militare, economica e sociale della Sicilia. Sta inventariando il patrimonio culturale immateriale del Comune di Delia (CL).