Il Crocifisso di Cimabue in Santa Croce a Firenze: i danni, le perdite e il restauro dopo l’alluvione del 1966

Torniamo a parlare di un’altra opera del pittore fiorentino Cimabue, il Crocifisso conservato presso la sagrestia della Basilica di Santa Croce a Firenze. Il punto di vista da cui affronteremo l’argomento è quello dei danni e delle perdite che l’opera subì a seguito dell’alluvione del 4 novembre 1966 e il lungo restauro a cui venne successivamente sottoposto.

Prima, qualche cenno storico-artistico: l’opera viene datata agli anni Ottanta del Duecento e considerata, sotto il profilo stilistico, tra le Croci in cui Cimabue manifestò il superamento di forme e colori stilizzati in favore di un disegno più realistico e di una tavolozza pittorica più chiaroscurale. Per cogliere tali caratteristiche, confrontiamo l’opera con il precedente Crocifisso della chiesa di S. Domenico ad Arezzo: ad esempio, se il primo è colto da una precisa e morbida definizione anatomica, il secondo risente ancora di una certa stilizzazione evidente nelle linee nette e scure che scolpiscono i dettagli del corpo; oppure, se il Cristo di Firenze ha un colorito naturale, quello di Arezzo è ancora relegato al modo di colorare la pelle con tinte verdastre. 

Durante e dopo l’alluvione, il Crocifisso fiorentino subì danni e perdite ingenti. Insieme ad altre opere, esso rimase infatti sommerso per tre giorni da sei metri di acqua mista a nafta. Innanzitutto, c’è da analizzare il problema dell’assorbimento di acqua da parte del legno che fa da supporto all’opera: infatti il legno, dopo essersi asciugato e aver rilasciato l’umidità trattenuta, iniziò inevitabilmente a contrarsi. In generale, quando il supporto è in questa fase, il colore ha ormai difficoltà a tornare nella posizione originaria, poiché la superficie su cui si trova è del tutto rigida. In quella circostanza, l’acqua toccò anche gli strati di preparazione sottostanti: quello composto di gesso e colla, assorbita acqua e umidità, perse tutte le sue tipiche caratteristiche di elasticità. Il colore, quindi, si trovò improvvisamente accolto su di un supporto di minori dimensioni (il legno) e su di uno strato sottostante (gesso e colla) che aveva del tutto perso la sua funzione. Inoltre, a suo tempo, Cimabue non aveva applicato lo strato di vernice finale, in genere steso a protezione della pellicola pittorica; questo provocò quindi l’immediato contatto dell’acqua con quest’ultima.

Firenze, Santa Croce, il Crocifisso di Cimabue dopo l’alluvione (Cimabue, Public domain, da Wikimedia Commons)

Presto si mise in moto un complesso sistema di scelte e operazioni, coordinato dall’allora soprintendente Ugo Procacci e dal direttore del Laboratorio di restauro Umberto Baldini, per le opere mobili che erano state danneggiate dall’alluvione: la prima decisione fu quella di ricoprire le superfici pittoriche con velinature che, una volta applicate, decelerassero la caduta del colore; la seconda fu quella di non muovere dalla sede originaria i beni, evitando quindi bruschi cambiamenti di temperatura e umidità che sarebbero avvenuti se trasportati in altro luogo.

In seguito, fu indicata la Limonaia di Palazzo Pitti, nel giardino di Boboli, come ambiente adatto per traslare le opere e sottoporle alle prime operazioni di restauro, tra cui l’applicazione di disinfestanti che inibissero lo sviluppo di attacchi biologici. Di lì a breve, lo Stato individuò i magazzini della Fortezza da Basso per ospitare tutte le successive attività. Infatti, i precedenti locali del Laboratorio di restauro al piano terra degli Uffizi, inaugurati da Procacci nel 1932, erano stati del tutto sommersi dalle acque dell’alluvione.

Il Crocifisso di Cimabue fu quindi dapprima portato alla Limonaia, sottoposto alle preliminari operazioni descritte, e poi trasferito nella Fortezza da Basso. Come osservato, l’opera aveva subito ingenti danni e perdite soprattutto a livello della pellicola pittorica. Un tempo, per restaurare il colore si procedeva con il suo distacco dagli strati sottostanti, azione questa che provocava l’inevitabile sacrificio di parte del supporto e della preparazione, oltre che all’abbassamento della qualità dello stesso: ad esempio, una volta restaurato e fatto nuovamente aderire su altra superficie, il colore non avrebbe più presentato le tipiche irregolarità di una pittura antica, ma sarebbe apparso del tutto appiattito. Per l’opera del pittore fiorentino, si decise però di agire diversamente: fu innanzitutto analizzato ogni strato preparatorio realizzato da Cimabue, a seguito del quale si arrivò alla conclusione che fosse stato eseguito alla perfezione. Questo portò alla decisione di procedere alla separazione del colore dal legno non per demolizione ma scollando, in ordine e per effetto dell’umidità, ogni strato che costituiva l’opera.

Così fatto, le parti dell’opera furono restaurate separatamente. Conclusa anche quest’ultima operazione, si procedette con la riadesione di ogni strato e, per l’occasione, si pensò di introdurre al di sotto del colore una lastra in fibra di vetro. L’idea di introdurre questo nuovo strato era finalizzata a isolare fisicamente la pittura dal supporto ligneo e quindi da ogni tipo di movimento futuro (il legno, lo ricordiamo, è un materiale particolarmente sensibile alle variazioni di temperatura e umidità e quindi in grado di aumentare o diminuire le sue dimensioni a causa di tali variabili se non adeguatamente controllate).

Altra novità fu il trattamento delle lacune: sulla scia delle innovazioni proposte da Cesare Brandi e quindi sul fondamento per cui il restauro deve essere sempre riconoscibile e reversibile, si decise di utilizzare una pennellata non ricostruttiva, ma realizzata a piccoli tratteggi a riempimento della lacuna stessa, utilizzando colori neutri di tonalità differente a seconda dell’area da risarcire.

Firenze, Santa Croce, il Crocifisso di Cimabue oggi (I, Sailko, CC BY-SA 3.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0, da Wikimedia Commons)

Il restauro del Crocifisso di Cimabue durò ben dieci anni. In occasione della mostra “Firenze restaurata” del 1972, in cui fu illustrata la storia del Laboratorio di restauro attraverso gli interventi compiuti nei quarant’anni di attività, il Crocifisso di Cimabue fu scelto come simbolo di tutte le opere alluvionate. Successivamente, tra il 1982 e il 1983, esso fu esposto nei più importanti musei del mondo, come il Metropolitan Museum di New York ed il Louvre, per ringraziare tutti coloro che avevano offerto un aiuto.

Oggi è possibile ammirare l’opera all’interno della sagrestia della Basilica di Santa Croce a Firenze.

Bibliografia generale:

L. Bellosi, Cimabue, Pero 2011.

M. Ciatti (con la collaborazione di F. Martusciello), Appunti per un manuale di storia e di teoria del restauro. Dispense per gli studenti, Firenze 2009.

A. M. Romanini, L’arte medievale in Italia, Firenze 1992.

Sitografia consultata:

https://www.santacroceopera.it/opere/cimabue-crocifisso/

Le riprese del Crocifisso subito dopo l’alluvione:

https://video.repubblica.it/luce/ricorrenze/archivio-luce-il-cristo-di-cimabue-sfigurato/257285/257553

Abstract:

In 1280, Cimabue, an Italian artist, painted the Crucifix of the Church of the Holy Cross in Florence. During the November flood in 1966, the masterpiece was deeply damaged and then was restored for ten years. During this restoration, were adopted new and innovative techniques.

Keywords:

Cimabue, Crucifix, Basilica of the Holy Cross in Florence, Medieval Art, restoration

Autore del contributo per il blog “La Tutela del Patrimonio Culturale”: Giulia Abbatiello

Scritto in data: 28 gennaio 2024

Il contributo è scaricabile in formato pdf al seguente link.

Le immagini, delle quali è indicata la fonte, sono inserite per puro scopo illustrativo e senza alcun fine di lucro.

La nostra attività sul blog e sui social viene effettuata volontariamente e gratuitamente. Se vuoi sostenerci, puoi fare una donazione. Anche un piccolo gesto per noi è importante.

Ti ringraziamo in anticipo!

Admin. Cristina Cumbo e #LaTPC team

Puoi inquadrare il QR-code tramite l’app di PayPal, oppure cliccare su:

Sostieni #LaTPC blog

Pubblicato da Giulia Abbatiello

Storica dell'arte, Bibliotecaria e abilitata all'insegnamento della Storia dell'Arte (classe A-54) nelle scuole secondarie di secondo grado. Si laurea nel 2020 in Storia dell'Arte con 110 e lode all’Università degli Studi di Roma "La Sapienza". L'anno successivo consegue il diploma di Master di II livello in “Strumenti scientifici di supporto alla conoscenza e alla tutela del patrimonio culturale” presso l'Università degli Studi di “Roma Tre”. Diplomatasi presso la Scuola Vaticana di Biblioteconomia (2023), ha preso parte al al progetto di catalogazione del libro antico del Fondo "Antichi e Rari" della Biblioteca della Pontificia Università Gregoriana e collabora attualmente al progetto di catalogazione dei manoscritti miniati del Fondo "Urbinate" nell’ambito del “Censimento e catalogazione dei manoscritti miniati della Biblioteca Apostolica Vaticana”, sostenuto dall’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e dall’Università degli Studi della Tuscia.